Démocratie ou Technocratie?
A long time ago and far away il tema delle riforme sembra calcare le scene patrie con la maschera dell’ “ospite di pietra”, e non è un caso che oggidì paia diffondersi il mantra secondo il quale «una seria riforma della magistratura non può che partire da una riforma dell’organo di autogoverno della stessa».
Del resto, i tentativi di modificare il Testo costituzionale sembrano essersi ormai tradotti in un’autentica litania, dalla Commissione Bozzi dei primi anni ’80, a quella De Mita-Jotti, seguita da quella D’Alema, fino a giungere alla legge di riforma Berlusconi che notoriamente non superò l’ostacolo referendario. Tuttavia, nessuno di questi progetti ha sortito un esito compiuto ad eccezione della riforma del Titolo V del 2001 e della riscrittura dell’art. 111 sul giusto processo. Riforma, quest’ultima, che ha rappresentato il capolinea del dibattito sulla “questione giustizia”, la quale, dalla fine degli anni ’90, ha occupato il Legislatore costituzionale con l’obiettivo di realizzare una più completa uguaglianza anche nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, all’insegna della terzietà e dell’imparzialità del giudizio. Princìpi, si noti, che prima della legge costituzionale de qua, nemmeno trovavano esplicito riconoscimento nella Carta fondamentale, nonostante il fatto che la loro centralità volga alla tutela dei diritti individuali, senza trascurare, nel contempo, il complessivo assetto del “potere” giudiziario.
Ma è soprattutto nell’ultima coppia di lustri che s’è manifestata l’esigenza di risolvere i problemi del funzionamento della Giustizia e della Magistratura. Il ruolo decisivo del CSM a tale riguardo, nonché la sua collocazione apicale in seno all’ordine giudiziario, hanno fatto nuovamente assurgere il Consiglio ad una posizione di primo piano nel dibattito politico-giuridico vigente. In questa chiave si spiega il senso di quest’incontro seminariale – introdotto dal Prof. Michele Scudiero ed interpretato dal Sen. Nicola Mancino – teso ad offrire uno spaccato significativo di un’importante e delicata esperienza sul campo durante quattro anni di vicepresidenza dell’organo, peraltro testimoniata da un recentissimo volume denominato Giustizia sotto tiro, la cui premessa s’intitola, non a caso, “Un quadriennio difficile”. Peraltro, si tratta di una tematica che, radicandosi nel Community acquis dello Staatsrecht e della Séparation des pouvoirs, si proietta inevitabilmente nella dimensione europea, sebbene l’approccio storico/comparatistico risulti per ora non molto praticato in questa materia.
A tale proposito, il primo dato ad emergere è che il nostro tanto vituperato Consiglio superiore in realtà ha rappresentato un, o meglio ancora “il” modello per numerosi organismi di “autogoverno” della Magistratura(o “Consigli di giustizia”, per usare la terminologia più accreditata a livello europeo). Com’è risaputo, l’espressione “Conseil supérieur de la magistrature” venne utilizzata per la prima volta nell’ordinamento francese, con la legge sull’organizzazione giudiziaria del 30 agosto 1883. A differenza dei Consigli attuali, ci si riferiva però sostanzialmente alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, alla quale venivano conferite funzioni disciplinari ed il potere di emanare pareri sulla carriera dei magistrati. Attribuzioni, queste, da esercitarsi comunque ad iniziativa o col placet del Guardasigilli. Sempre nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale, analoghi organismi vengono istituiti in Portogallo, Romania, Spagna e, appunto, Italia.
Il nostro “Consiglio superiore della Magistratura”, istituito nel 1907 dalla legge Orlando, si connotava per essere formato soltanto da magistrati, la metà dei quali di nomina elettiva. Tale rilievo non deve però trarre in inganno: ancora non si poteva parlare, infatti, di “autogoverno”, poiché il Consiglio era dotato, ad eccezione di un circoscritto potere deliberativo in materia di promozioni, di sole competenze consultive, mentre era addirittura privo di poteri disciplinari.
Se l’istituzione di Consigli di giustizia con competenze consultive e disciplinari sullo status dei magistrati rappresenta l’antecedente di quanto avverrà in maniera capillare nel resto d’Europa, va rilevato come il ruolo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati risulti assai affievolito ove confrontato con gli analoghi organismi del dopoguerra. I Consigli dei primi del ’900, difatti, risentono d’esser comunque posti sotto l’ingerenza politica del Governo per un verso, mentre dall’altro verso, avvertono la mancanza d’un riconoscimento costituzionale, poiché tutti furono istituiti attraverso legge ordinaria. Tuttavia, tale embrionale stato delle cose cominciava già ad essere (per dirla con Mário Novello) «qualcosa anziché il nulla».
L’apripista del riconoscimento costituzionale dei Consigli di giustizia è, ancóra una volta, la Francia, che costituzionalizza il suo Conseil dedicandogli il Titolo IX della Costituzione del ’46. Di poco successiva, è l’entrata in vigore della nostra Carta, la quale dedica gli artt. 104 e 105 al CSM. Quello italiano è un caso emblematico della tendenza a conferire rango costituzionale ai Consigli di giustizia. Occorre infatti considerare come il “nuovo” CSM sia stato concepito dai Costituenti per reagire al pesante dispotismo esercitato dal potere politico sulla magistratura durante il ventennio fascista. Ne deriva da un lato, che la menzione del CSM nella Costituzione, al di là di rappresentare un suggello per il prestigio e l’importanza dell’Organo, muove dall’esigenza di sottrarne la disciplina (così come la soppressione) alla maggioranza parlamentare; dall’altro lato, che le stesse funzioni, composizione e struttura del CSM sono preordinate a sottrarre all’Esecutivo il potere di “governare” la carriera dei magistrati. Ed è proprio da questa “missione” del CSM che trae spunto la qualificazione dello stesso quale organo di “autogoverno” della magistratura. Trattasi, a ben vedere, di una definizione allusiva ma spesso abusata e non perfettamente calzante, in quanto tra i componenti dell’attuale Consiglio non s’annoverano più soltanto membri togati, ma anche, per un terzo, membri laici di nomina parlamentare, mentre la presidenza viene ora affidata al Capo dello Stato, ad ulteriore conferma della levatura dell’organo.
Nondimeno, la composizione mista del Consiglio superiore non rappresenta un’anomalia, se non altro per la varietà delle soluzioni proposte in Europa. In merito – ed anche in considerazione dei progetti di riforma attualmente in corso, i quali, almeno nelle intenzioni, si propongono d’intervenire sulla proporzione tra membri “laici” e “togati” –, risulta di tutt’evidenza il contributo che può trarsi dalla prospettiva comparatistica. Mentre la Francia, all’indomani del secondo conflitto mondiale, optò per una struttura mista che assegnava ai magistrati una presenza di minoranza (la proporzione era di sei membri laici e quattro togati, oltre a due membri di diritto), negli altri Paesi dell’Europa occidentale provenienti da esperienze dittatoriali (Grecia, Spagna e Portogallo) si optò per l’istituzione di Consigli composti, rispettivamente, da soli membri togati; da maggioranza togata; da maggioranza laica (sebbene ai togati fossero comunque riservati otto componenti su diciassette).
Ma il dato comune rimane che, pur nella varietà delle soluzioni adottate nei vari Paesi, i Consigli di giustizia europei, con le sole eccezioni di Georgia, Islanda e Paesi Bassi, trovano fondamento direttamente nei Testi costituzionali. È solo a partire dagli anni ’90, tuttavia, che s’assiste ad una vera e propria “fioritura” di Consigli di giustizia. Consigli che, da organi riconosciuti in un numero piuttosto ridotto di Paesi, alla fine compaiono nella maggioranza degli Stati europei.
Ciò si spiega innanzitutto per il processo di democratizzazione degli Stati appartenenti all’ex blocco sovietico, che vedono nell’effettiva indipendenza della magistratura una delle precondizioni per il passaggio alla democrazia. Ma si spiega anche per l’acquisita consapevolezza che la presenza di organi posti a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura rappresenta un elemento imprescindibile per il corretto estrinsecarsi dei rapporti tra Poteri dello Stato. Ed in tale prospettiva, va letta pure l’introduzione nell’ultimo decennio di organi c.d. di autogoverno della magistratura in Paesi di risalente tradizione democratica come il Belgio o l’Islanda.
Nel periodo più prossimo, la crescente attenzione sugli organi posti a tutela della magistratura ha trovato attuazione anche al livello delle istituzioni comunitarie. Basti pensare ai numerosi e importanti provvedimenti da parte degli organi della Comunità, Consiglio d’Europa in primis, o alla creazione della “Rete europea dei Consigli di giustizia” (ENCJ), significativamente istituita a Roma nel 2004 su iniziativa del CSM italiano. La fondazione della Rete s’è imposta proprio a fronte del fenomeno della moltiplicazione dei Consigli, ed è tesa specificamente alla finalità di sostenere la circolazione delle informazioni e lo scambio di prassi ed esperienze a livello europeo relativamente all’organizzazione e al funzionamento dei Consigli e dei varî ordini giudiziarî.
Raccogliendo le vele del discorso, resta innegabile la capillare diffusione di tali organismi, il loro riconoscimento costituzionale ed il loro stretto legame sia con la tutela dell’uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge sia, e più profondamente, con lo stesso carattere democratico della forma di Stato.
Proprio questa capillare diffusione dei Consigli ha portato, pressoché ovunque, da un lato, una maggiore indipendenza della magistratura dall’Esecutivo (indipendenza esterna); dall’altro lato, una struttura meno gerarchica dell’ordine giudiziario (indipendenza interna). Tuttavia, a ben vedere, si deve tener conto che il c.d. autogoverno della magistratura ha determinato, per forza di cose, anche un più forte associazionismo politico–sindacale dei magistrati. Il che, da più parti, è sembrato urtare con quel disegno costituzionale che parrebbe concepire la magistratura in un’ottica, per così dire, più “tecnica” che “tecnocratica”, forse per l’echeggiare d’un quesito risalente alla VI Satira di Giovenale ma – pur serbandoci scrupolosamente audessus de la mêlée – non estraneo pure alla nostra contemporaneità: quis custodiet custodes?
Del resto, i tentativi di modificare il Testo costituzionale sembrano essersi ormai tradotti in un’autentica litania, dalla Commissione Bozzi dei primi anni ’80, a quella De Mita-Jotti, seguita da quella D’Alema, fino a giungere alla legge di riforma Berlusconi che notoriamente non superò l’ostacolo referendario. Tuttavia, nessuno di questi progetti ha sortito un esito compiuto ad eccezione della riforma del Titolo V del 2001 e della riscrittura dell’art. 111 sul giusto processo. Riforma, quest’ultima, che ha rappresentato il capolinea del dibattito sulla “questione giustizia”, la quale, dalla fine degli anni ’90, ha occupato il Legislatore costituzionale con l’obiettivo di realizzare una più completa uguaglianza anche nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, all’insegna della terzietà e dell’imparzialità del giudizio. Princìpi, si noti, che prima della legge costituzionale de qua, nemmeno trovavano esplicito riconoscimento nella Carta fondamentale, nonostante il fatto che la loro centralità volga alla tutela dei diritti individuali, senza trascurare, nel contempo, il complessivo assetto del “potere” giudiziario.
Ma è soprattutto nell’ultima coppia di lustri che s’è manifestata l’esigenza di risolvere i problemi del funzionamento della Giustizia e della Magistratura. Il ruolo decisivo del CSM a tale riguardo, nonché la sua collocazione apicale in seno all’ordine giudiziario, hanno fatto nuovamente assurgere il Consiglio ad una posizione di primo piano nel dibattito politico-giuridico vigente. In questa chiave si spiega il senso di quest’incontro seminariale – introdotto dal Prof. Michele Scudiero ed interpretato dal Sen. Nicola Mancino – teso ad offrire uno spaccato significativo di un’importante e delicata esperienza sul campo durante quattro anni di vicepresidenza dell’organo, peraltro testimoniata da un recentissimo volume denominato Giustizia sotto tiro, la cui premessa s’intitola, non a caso, “Un quadriennio difficile”. Peraltro, si tratta di una tematica che, radicandosi nel Community acquis dello Staatsrecht e della Séparation des pouvoirs, si proietta inevitabilmente nella dimensione europea, sebbene l’approccio storico/comparatistico risulti per ora non molto praticato in questa materia.
A tale proposito, il primo dato ad emergere è che il nostro tanto vituperato Consiglio superiore in realtà ha rappresentato un, o meglio ancora “il” modello per numerosi organismi di “autogoverno” della Magistratura(o “Consigli di giustizia”, per usare la terminologia più accreditata a livello europeo). Com’è risaputo, l’espressione “Conseil supérieur de la magistrature” venne utilizzata per la prima volta nell’ordinamento francese, con la legge sull’organizzazione giudiziaria del 30 agosto 1883. A differenza dei Consigli attuali, ci si riferiva però sostanzialmente alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, alla quale venivano conferite funzioni disciplinari ed il potere di emanare pareri sulla carriera dei magistrati. Attribuzioni, queste, da esercitarsi comunque ad iniziativa o col placet del Guardasigilli. Sempre nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale, analoghi organismi vengono istituiti in Portogallo, Romania, Spagna e, appunto, Italia.
Il nostro “Consiglio superiore della Magistratura”, istituito nel 1907 dalla legge Orlando, si connotava per essere formato soltanto da magistrati, la metà dei quali di nomina elettiva. Tale rilievo non deve però trarre in inganno: ancora non si poteva parlare, infatti, di “autogoverno”, poiché il Consiglio era dotato, ad eccezione di un circoscritto potere deliberativo in materia di promozioni, di sole competenze consultive, mentre era addirittura privo di poteri disciplinari.
Se l’istituzione di Consigli di giustizia con competenze consultive e disciplinari sullo status dei magistrati rappresenta l’antecedente di quanto avverrà in maniera capillare nel resto d’Europa, va rilevato come il ruolo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati risulti assai affievolito ove confrontato con gli analoghi organismi del dopoguerra. I Consigli dei primi del ’900, difatti, risentono d’esser comunque posti sotto l’ingerenza politica del Governo per un verso, mentre dall’altro verso, avvertono la mancanza d’un riconoscimento costituzionale, poiché tutti furono istituiti attraverso legge ordinaria. Tuttavia, tale embrionale stato delle cose cominciava già ad essere (per dirla con Mário Novello) «qualcosa anziché il nulla».
L’apripista del riconoscimento costituzionale dei Consigli di giustizia è, ancóra una volta, la Francia, che costituzionalizza il suo Conseil dedicandogli il Titolo IX della Costituzione del ’46. Di poco successiva, è l’entrata in vigore della nostra Carta, la quale dedica gli artt. 104 e 105 al CSM. Quello italiano è un caso emblematico della tendenza a conferire rango costituzionale ai Consigli di giustizia. Occorre infatti considerare come il “nuovo” CSM sia stato concepito dai Costituenti per reagire al pesante dispotismo esercitato dal potere politico sulla magistratura durante il ventennio fascista. Ne deriva da un lato, che la menzione del CSM nella Costituzione, al di là di rappresentare un suggello per il prestigio e l’importanza dell’Organo, muove dall’esigenza di sottrarne la disciplina (così come la soppressione) alla maggioranza parlamentare; dall’altro lato, che le stesse funzioni, composizione e struttura del CSM sono preordinate a sottrarre all’Esecutivo il potere di “governare” la carriera dei magistrati. Ed è proprio da questa “missione” del CSM che trae spunto la qualificazione dello stesso quale organo di “autogoverno” della magistratura. Trattasi, a ben vedere, di una definizione allusiva ma spesso abusata e non perfettamente calzante, in quanto tra i componenti dell’attuale Consiglio non s’annoverano più soltanto membri togati, ma anche, per un terzo, membri laici di nomina parlamentare, mentre la presidenza viene ora affidata al Capo dello Stato, ad ulteriore conferma della levatura dell’organo.
Nondimeno, la composizione mista del Consiglio superiore non rappresenta un’anomalia, se non altro per la varietà delle soluzioni proposte in Europa. In merito – ed anche in considerazione dei progetti di riforma attualmente in corso, i quali, almeno nelle intenzioni, si propongono d’intervenire sulla proporzione tra membri “laici” e “togati” –, risulta di tutt’evidenza il contributo che può trarsi dalla prospettiva comparatistica. Mentre la Francia, all’indomani del secondo conflitto mondiale, optò per una struttura mista che assegnava ai magistrati una presenza di minoranza (la proporzione era di sei membri laici e quattro togati, oltre a due membri di diritto), negli altri Paesi dell’Europa occidentale provenienti da esperienze dittatoriali (Grecia, Spagna e Portogallo) si optò per l’istituzione di Consigli composti, rispettivamente, da soli membri togati; da maggioranza togata; da maggioranza laica (sebbene ai togati fossero comunque riservati otto componenti su diciassette).
Ma il dato comune rimane che, pur nella varietà delle soluzioni adottate nei vari Paesi, i Consigli di giustizia europei, con le sole eccezioni di Georgia, Islanda e Paesi Bassi, trovano fondamento direttamente nei Testi costituzionali. È solo a partire dagli anni ’90, tuttavia, che s’assiste ad una vera e propria “fioritura” di Consigli di giustizia. Consigli che, da organi riconosciuti in un numero piuttosto ridotto di Paesi, alla fine compaiono nella maggioranza degli Stati europei.
Ciò si spiega innanzitutto per il processo di democratizzazione degli Stati appartenenti all’ex blocco sovietico, che vedono nell’effettiva indipendenza della magistratura una delle precondizioni per il passaggio alla democrazia. Ma si spiega anche per l’acquisita consapevolezza che la presenza di organi posti a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura rappresenta un elemento imprescindibile per il corretto estrinsecarsi dei rapporti tra Poteri dello Stato. Ed in tale prospettiva, va letta pure l’introduzione nell’ultimo decennio di organi c.d. di autogoverno della magistratura in Paesi di risalente tradizione democratica come il Belgio o l’Islanda.
Nel periodo più prossimo, la crescente attenzione sugli organi posti a tutela della magistratura ha trovato attuazione anche al livello delle istituzioni comunitarie. Basti pensare ai numerosi e importanti provvedimenti da parte degli organi della Comunità, Consiglio d’Europa in primis, o alla creazione della “Rete europea dei Consigli di giustizia” (ENCJ), significativamente istituita a Roma nel 2004 su iniziativa del CSM italiano. La fondazione della Rete s’è imposta proprio a fronte del fenomeno della moltiplicazione dei Consigli, ed è tesa specificamente alla finalità di sostenere la circolazione delle informazioni e lo scambio di prassi ed esperienze a livello europeo relativamente all’organizzazione e al funzionamento dei Consigli e dei varî ordini giudiziarî.
Raccogliendo le vele del discorso, resta innegabile la capillare diffusione di tali organismi, il loro riconoscimento costituzionale ed il loro stretto legame sia con la tutela dell’uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge sia, e più profondamente, con lo stesso carattere democratico della forma di Stato.
Proprio questa capillare diffusione dei Consigli ha portato, pressoché ovunque, da un lato, una maggiore indipendenza della magistratura dall’Esecutivo (indipendenza esterna); dall’altro lato, una struttura meno gerarchica dell’ordine giudiziario (indipendenza interna). Tuttavia, a ben vedere, si deve tener conto che il c.d. autogoverno della magistratura ha determinato, per forza di cose, anche un più forte associazionismo politico–sindacale dei magistrati. Il che, da più parti, è sembrato urtare con quel disegno costituzionale che parrebbe concepire la magistratura in un’ottica, per così dire, più “tecnica” che “tecnocratica”, forse per l’echeggiare d’un quesito risalente alla VI Satira di Giovenale ma – pur serbandoci scrupolosamente audessus de la mêlée – non estraneo pure alla nostra contemporaneità: quis custodiet custodes?
Aljs Vignudelli
Ordinario di Diritto Costituzionale
nell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Ordinario di Diritto Costituzionale
nell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia