Banche e Finanza

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Vincenzo Calandra


Vincenzo Calandra
Vincenzo Calandra, Ordinario di Diritto commerciale all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

BANCA UNIVERSALE E BANCA COMMERCIALE

Nel sistema bancario italiano e in quello dei principali paesi europei non ha più ragion d’essere una contrapposizione tra banca universale e banca commerciale. Nel nostro Paese, con il superamento del principio di specializzazione, essenzialmente basato sulla correlazione fra provvista e impieghi, che aveva caratterizzato il nostro sistema bancario fino agli anni ‘70, e l’eliminazione, da parte del Testo Unico Bancario, della distinzione tra aziende ed istituti di credito si è realizzato il progressivo adeguamento delle banche italiane all’operatività delle banche degli altri paesi dell’UE. L’attuale banca commerciale è una banca universale che opera sia a breve che a lungo termine e, accanto all’attività tradizionale di raccolta dei depositi e di erogazione del credito, offre una molteplicità di altri prodotti e servizi, direttamente o tramite società appartenenti al Gruppo Bancario, quali leasing, factoring, gestione del risparmio, private equity, accompagnamento alla quotazione di borsa, assistenza all’emissione di titoli, ecc.

La distinzione che mantiene, invece, una rilevante importanza e su cui, in particolare dopo la crisi finanziaria, si è acceso un vivace dibattito e il faro dei regolatori è tra banca commerciale e banca di investimento.

L’attività delle banche di investimento si concentra, in particolare, sul trading su strumenti finanziari e commodities, sull’attività in derivati di natura speculativa o come servizio di copertura dei rischi di tasso o di cambio, sull’assistenza nel collocamento e nella garanzia di collocamento di emissioni, su investimenti di natura speculativa anche tramite lo strumento del private equity In particolare l’attività di trading proprietario e in derivati viene svolta con volumi molto elevati, con rilevanti livelli di rischio, con notevole volatilità di risultati, specie in presenza di elevata volatilità dei mercati, e con l’utilizzo di una leva (definibile come rapporto totale delle attività e patrimonio netto tangibile, che sta ad indicare la percentuale con la quale le attività sono finanziate a debito) generalmente più elevata di quella delle banche commerciali.

La “muraglia cinese” che un tempo separava la banca di investimento dalla banca commerciale, la cui attività era essenzialmente concentrata sulla offerta di prodotti e servizi alla clientela, ha cominciato a sgretolarsi dalla seconda metà degli anni ‘90, quando, da un lato, alle banche di investimento è stato consentito di raccogliere depositi, purché non da clientela retail, e, d’altro lato, le banche commerciali, in particolare quelle inglesi, tedesche e francesi, in misura molto più contenuta quelle italiane, si sono lanciate nell’attività di investment banking.

Dopo la crisi finanziaria, innescata, come è noto, da una banca di investimento americana (Lehman Brothers), ci si è posti il problema se sia il caso di ritornare ad un principio di rigida separazione, soprattutto in considerazione del fatto che le banche commerciali godono della garanzia esplicita o implicita sui depositi da parte dello Stato di appartenenza e, come tali, devono essere assoggettate a regole di contenimento del rischio più stringenti.

La ricerca di nuove regole comuni capaci di evitare squilibri competitivi e arbitraggi normativi, si è essenzialmente orientata a cercare di limitare, per le banche commerciali, l’esercizio di determinata attività quali il trading proprietario e gli investimenti speculativi, trascurando, peraltro, la circostanza che a provocare la tempesta perfetta è stata proprio una banca di investimento la cui crisi, con effetti epidemici sull’intero sistema finanziario internazionale, è stata certamente favorita dalla mancanza di regole e di adeguati controlli.

La strada intrapresa in Europa, in coerenza con i principi di Basilea, è stata quella di dettare regole dell’attività piuttosto che regole dei soggetti. Il problema è che anche le nuove regole favoriscono ancora, in modo illogico, le attività di investment banking, penalizzando, invece, l’attività di erogazione del credito, con rilevanti effetti prociclici.

Lo strumento fondamentale di contenimento dei rischi al quale si è fatto ricorso è rappresentato dall’assorbimento di capitale misurato sulla rischiosità di ciascuna attività e dalla fissazione di un capitale adeguato per lo svolgimento delle stesse: più elevato è il rischio, maggiore è il capitale che la banca deve avere per coprire il rischio e, quindi, il costo che la banca deve sostenere per compiere l’operazione, in quanto il capitale “accantonato” a copertura del rischio per la banca rappresenta un costo.

Le regole di Basilea II, recepite dalle prime due direttive comunitarie sui requisiti di capitale delle banche (n. 48 e 49 del 2006) avevano pesato molto di più il rischio di credito rispetto ai rischi connessi all’attività di trading producendo un duplice effetto negativo: hanno indotto molte banche a privilegiare l’attività di trading rispetto alla concessione di crediti alla clientela e hanno portato all’investimento in elevate quantità di titoli derivanti da cartolarizzazioni (tra cui i famigerati CDO) che, seppure dotati di rating tripla A, non avevano un mercato liquido e trasparente in cui essere negoziati e la cui illiquidità ha avuti pesanti conseguenze sui bilanci bancari durante la crisi del 2008 - 2009.

Con la Direttiva 76/2010 (la c.d.CRDIII) si è in parte posto rimedio all’errore commesso prevedendo un maggior assorbimento di capitale, più adeguato al rischio, per le attività trading proprietario e, in particolare, per l’investimento in titoli derivanti da cartolarizzazioni (ABS) e soprattutto in titoli delle ricartolarizzazioni (CDO), ma permane comunque un notevole differenziale nel valutare il rischio dell’attività di negoziazione rispetto a quella di concessione del credito che mantiene l’effetto penalizzante per l’attività tradizionale della banca commerciale. Occorre tenere presente, infatti, che l’assorbimento di capitale rappresenta un costo che grava sulle operazioni di credito che la banca effettua e che la copertura di capitale che deriva dell’applicazione di quei criteri riduce la capacità della banca di concedere credito all’economia reale.

Questo effetto negativo sulla capacità delle banche commerciali di sostenere la ripresa economica è stato ulteriormente accentuato dalle determinazioni recentemente assunte dall’European Banking Authority (EBA: vale a dire l’organismo creato a livello di Unione Europea per la vigilanza sul settore bancario) nell’individuazione delle necessità di capitale delle banche europee. I criteri adottati dall’EBA continuano a sottopesare i rischi legati all’investimento in titoli illiquidi (particolarmente presenti nei bilanci delle banche tedesche e francesi e principale causa della recente crisi di DEXIA che ha richiesto l’intervento statale), ma in compenso, hanno attribuito particolare rilievo al rischio - paese, svalutando i titoli di stato dei paesi per i quali il finanziamento del debito pubblico presenta maggiori criticità, con risultati molto penalizzanti per le banche italiane e spagnole, per le quali sono state individuate necessità di capitale decisamente più elevate di quelle delle altre banche dei maggiori paese europei.

Una ulteriore necessità di rafforzamento del capitale è stata poi ravvisata per le cosiddette banche sistemiche (SIFI: vale a dire quelle banche la cui eventuale crisi può produrre effetti negativi sul sistema finanziario globale) che, in base alle regole elaborate dal Comitato di Basilea nel novembre 2011, devono dotarsi di un buffer di capitale aggiuntivo rispetto all’entità determinata sulla base dei criteri comuni agli altri intermediari finanziari.

Come ha osservato De Cecco in un recente articolo pubblicato su Il Sole - 24 ore dal titolo “Una divinità chiamata Cor. Tier 1”, l’attenzione dei regolatori, dopo lo scoppio della crisi finanziaria, si è concentrata eccessivamente sul rafforzamento del capitale delle banche, con l’adozione di criteri discutibili nella determinazione delle necessità di capitalizzazione e con effetti che finiscono col paralizzare l’attività tipica delle banche commerciali di erogazione del credito in un momento nel quale il superamento della fase recessiva che l’Europa sta attraversando richiederebbe un forte sostegno da parte del sistema creditizio.

In compenso risultano trascurati o, quanto meno, non adeguatamente valutati altri rischi che hanno avuto un ruolo determinante nei dissesti bancari di questi anni: vale a dire i rischi legati alla carenza di liquidità e all’eccesso di leva finanziaria.

Emblematica è la vicenda di DEXIA che era uscita dagli stress test richiesti dall’EBA in posizione di preminenza, con un livello di capitalizzazione tra i più elevati (Core Tier 1 di oltre il 12%), ma ha pagato le conseguenze di un altissimo indebitamento e dell’elevata presenza nel proprio patrimonio di una enorme quantità di titoli illiquidi (pari a 2,5 volte il patrimonio) che ha contribuito, insieme ad una situazione di mercato non favorevole al funding bancario, a produrre quella situazione di carenza di liquidità della banca che ha imposto il necessario ricorso all’intervento dello stato.

Per quanto riguarda la leva finanziaria, è lo stesso Comitato di Basilea, nello Schema di regolamentazione di Basilea 3 del dicembre 2010, aggiornato al giugno 2011, a riconoscere che “una delle caratteristiche di fondo della crisi è stato l’accumulo di un eccessivo grado di leva finanziaria”, anche in presenza di robusti coefficienti patrimoniali basati sul rischio, e a proporre l’introduzione di un indice di leva finanziaria (leverage ratio) non basato sul rischio e calibrato in modo da rappresentare una misura supplementare integrativa rispetto ai requisiti basati sul rischio.

Pertanto, non può non destare perplessità il modo con il quale questi problemi vengono affrontati nella nuova proposta di direttiva sui requisiti di capitale (la c.d. CRD IV) elaborata dalla Commissione Europea nel luglio del 2011.

Viene introdotta la previsione di un indice di copertura della liquidità (liquidity coverage ratio), ma se ne rinvia l’esatta calibrazione e determinazione al 2015 dopo un periodo di osservazione nel corso del quale viene proposta l’adozione di una indicazione provvisoria determinata con l’applicazione di particolari criteri di stress test.

Ancor più cauto (e deludente) è il modo con cui viene affrontato il tema della leva finanziaria in merito al quale viene previsto soltanto un monitoraggio in vista dell’introduzione di un requisito vincolante a partire dal 2018.

L’impressione che si ricava è che non si sia voluto pregiudicare gli interessi di diversi ed importanti istituti bancari, soprattutto tedeschi e francesi, che operano con una leva finanziaria molto elevata (in taluni casi addirittura doppia rispetto a quella delle maggiori banche italiane) costringendoli nell’immediato ad una drastica riduzione dell’indebitamento e/o dei loro attivi a rischio.

Infine, ancora molto timidi e inadeguati sono stati gli interventi dei regolatori volti a regolamentare e contenere quel c.d. sistema bancario ombra costituito dalle negoziazioni di titoli e derivati al di fuori dei mercati regolamentati che il Financial Stability Board ha recentemente stimato in un ammontare di oltre 50 mila miliardi di dollari, pari a circa la metà del valore stimato del sistema bancario tradizionale e addirittura superiore ai volumi anteriori alla crisi finanziaria (la proposta di CRD IV si limita a prevedere incentivi alla creazione di clearing house che permettano di ridurre i rischi di controparte attraverso un meccanismo di automatica compensazione degli obblighi dei partecipanti derivanti dalle operazioni eseguite su un determinato mercato).

Volendo trarre qualche conclusione dal quadro così delineato, mi sentirei di affermare che allo stato non sembra possibile (e forse nemmeno auspicabile) che si operi una netta separazione, sotto il profilo dell’attività consentita, tra banca commerciale e banca di investimento se non dal lato della raccolta di depositi dalla clientela retail che dovrebbe essere unicamente riservato alle banche commerciali. Mi parrebbe, invece, opportuno rivedere i criteri di ponderazione dei rischi penalizzando maggiormente, in termini di assorbimento di capitale, le attività di trading proprietario da parte delle banche commerciali per far sì che le attività di investment banking che queste ultime svolgono siano essenzialmente quelle al servizio della clientela e a supporto dell’attività creditizia e di gestione dei patrimoni della clientela.

Nello stesso tempo, però, occorre evitare che ai maggiori controlli cui sono sottoposte le banche commerciali in funzione di tutela dei depositanti si contrapponga un regime di eccessiva libertà e di assenza di regole nell’assunzione dei rischi per le banche di investimento la cui crisi, come si è dimostrato con il caso Lehman Brothers, può avere gravi effetti sistemici.

Occorre introdurre, anche per queste istituzioni finanziarie, regole severe in tema di liquidità e di leva finanziaria e per disciplinare e contenere l’attività in derivati.

Ma soprattutto è indispensabile individuare e condividere regole comuni ad evitare arbitraggi normativi (vale a dire la scelta dell’istituzione finanziaria di operare in quei mercati nei quali vigono le regole meno severe) che finirebbero per vanificare l’efficacia della regolamentazione. È questo il difficile compito che i regolatori si trovano ad affrontare in un mercato globale (come è quello finanziario) nel quale, però, ciascun paese (e in particolare quelli anglosassoni in cui sono collocate le maggiori piazze finanziarie) appare riluttante a rinunciare a quelle prerogative che possono favorire i propri mercati e campioni nazionali.

Quando si saranno calmate le acque e le turbolenze che ancora affliggono i mercati finanziari si saranno attenuate, all’Unione Europea si porrà un altro difficile compito: individuare gli strumenti regolamentari più adeguati per ristabilire un corretto funzionamento concorrenziale del mercato bancario, eliminando o, quanto meno, contenendo le distorsioni competitive prodotte dagli aiuti di stato di cui le banche britanniche, tedesche e francesi hanno abbondantemente fruito rispetto alle banche degli altri paesi, tra cui certamente quelle italiane, che hanno saputo affrontare la crisi senza ricorrere all’intervento dello stato. Se non si sarà in grado di operare le necessarie perequazioni, il funzionamento concorrenziale del mercato bancario ne risulterà notevolmente pregiudicato e l’Unione Europea avrà mancato ad uno dei compiti fondamentali che, nel campo dell’economia, il Trattato istitutivo le affida.

Vincenzo Calandra