Banche e Finanza

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Fabio Merusi


Fabio Merusi
Fabio Merusi, Ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Pisa

IL “VELENO” DELLA BANCA UNIVERSALE

Vista la situazione attuale può essere di qualche interesse ricordare come si presentava in Italia la situazione bancaria all’insorgere della crisi degli anni Trenta.

Nonostante che ancora oggi si discuta sulle cause della crisi economica che nel 1929 colpì l’intero mondo occidentale, una cosa è certa, che in Italia l’epicentro della crisi era la banca mista e che lo Stato italiano riuscì a superare la crisi economica, prima e meglio di altri Paesi, modificando l’ordinamento del credito.

Come è noto, la banca mista è quella banca che finanzia l’industria partecipando al suo capitale o, più frequentemente, prendendo in garanzia di finanziamenti a lungo termine una parte consistente del suo capitale azionario.

Con la conseguenza, in quest’ultimo caso, che, se la società non è in grado di onorare il finanziamento bancario, la banca diventa il principale, o addirittura l’unico, azionista della società industriale. Con l’ovvio risultato che la banca, divenuta proprietaria di titoli azionari non vendibili, quanto meno a breve termine, sul mercato, non recependo più indietro i finanziamenti concessi non è più in grado di restituire i depositi ai risparmiatori, che è quel che è successo in Italia all’inizio degli anni Trenta a seguito dei finanziamenti concessi dalle banche miste alle industrie durante, o immediatamente dopo, la prima guerra mondiale. È sufficiente evocare il noto episodio della Banca di Sconto: un bel mattino, o meglio, un brutto mattino i depositanti trovarono gli sportelli chiusi perché la banca non aveva più liquidità.

È altrettanto nota la geniale soluzione che va sotto il nome di Beneduce, il banchiere consigliere di Mussolini, il quale, ormai al vertice di uno Stato autoritario, poté realizzare l’operazione suggeritagli dal suo consigliere senza alcuna apprezzabile resistenza, anzi, ricevendo da sindacati dell’epoca telegrammi di ringraziamento: una consistente parte della spesa pubblica prevista nel bilancio dello Stato dell’epoca fu destinata (riducendo addirittura lo stipendio ai pubblici impiegati!) all’acquisto delle partecipazioni azionarie detenute dalle banche miste. 

Le partecipazioni acquistate “temporaneamente” dallo Stato, ma divenute “stabilmente” delle partecipazioni statali perché nessuno era più in grado di acquistarle, furono poi concentrate in un ente pubblico, l’I.R.I., dando così inizio al fenomeno tipicamente italiano, e per molto tempo preso a modello da altri ordinamenti, delle partecipazioni statali.

E le banche salvate da Beneduce?

Riacquistata la liquidità, poterono riprendere a finanziare ogni tipo di attività economica, superando così la crisi dell’economia reale.

Ma perché non “peccassero più”, raccogliendo depositi a vista per investire a medio e lungo termine, furono divise in due categorie, le banche commerciali, che raccoglievano a vista, cioè depositi ritirabili in ogni momento, ed erogavano crediti a breve termine, e banche a medio e lungo termine le quali raccoglievano il risparmio con titoli obbligazionari a medio e a lungo termine, in modo da far sì che la raccolta a medio o lungo termine si “baciasse”, come ancora si dice in gergo bancario, con una erogazione del credito di pari durata. Naturalmente con tutte le combinazioni matematicamente possibili di questo fondamentale concetto: raccolta di pari durata rispetto all’erogazione del finanziamento.

Va da sé che banche di questo tipo realizzano (o sono vicine a realizzare) quello che è noto come il paradosso di Caprara: se la banca è un mero intermediario fra la raccolta del risparmio e l’erogazione del credito, l’impresa bancaria non ha bisogno di capitale se non di quello minimo per garantire il funzionamento ordinario dell’azienda. E infatti tutte le banche italiane dell’era Beneduce, trasformate di fatto, o create appositamente di diritto, in enti pubblici, avevano solo un fondo di dotazione iniziale che si integrava nel tempo con qualche percentuale degli eventuali utili.

Per avere un esempio di banca che funziona ancora così, basta por mente al Credito Sportivo, ultima banca pubblica “residua” (così la chiama l’attuale T.U. bancario) esistente nel nostro ordinamento, tra l’altro venuta all’attenzione delle cronache in questi giorni proprio in relazione al suo carattere “pubblico”.

Ulteriore presupposto di un sistema di questo genere è che le banche commerciali e le banche a lungo termine, chiamate anche “istituti di credito speciale”, facciano soltanto le banche, cioè l’intermediario tra la raccolta del risparmio e l’erogazione del credito.

Se le banche facessero anche altre cose riemergerebbe la necessità che l’impresa disponesse di un capitale adeguato per garantirla contro i rischi delle attività diverse dalla pura e semplice intermediazione.

Conseguentemente l’ordinamento del credito del 1936, varato alla conclusione dell’operazione Beneduce, vietava alle banche di fare cose diverse dalla intermediazione fra raccolta del risparmio ed erogazione del credito.

Le cose bancarie in Italia stavano così, quando il nostro Paese si è “aperto” all’ordinamento globale, a quello comunitario e a quello “cooperativo di categoria” fra banche centrali e autorità finanziarie di vario tipo dei vari Paesi non solo occidentali che, per quel che rileva per il nostro discorso riferito alle “tipologie” bancarie, si riunisce presso la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea.

Donde la dizione di Basilea con numeri progressivi delle deliberazioni di indirizzo che il Comitato dei Governatori delle Banche centrali dei Paesi economicamente più importanti via via adotta.

Solo che nell’ambito del Comitato di Basilea e nella Unione Europea, che ne segue pedissequamente le orme traducendone gli indirizzi in norme analitiche cogenti per i Paesi dell’Unione, il modello di banca che si è affermato – va detto con il consenso “masochista” della rappresentanza italiana – non è il modello Beneduce, bensì il modello anglosassone della banca universale, cioè il modello dell’impresa bancaria che può fare tutto, raccolta del risparmio ed erogazione del credito senza limitazioni temporali e senza una necessaria interrelazione fa raccolta del risparmio ed erogazione del credito e, soprattutto, anche qualsiasi operazione finanziaria non bancaria.

Ne segue che in questo tipo di banca, come in qualsiasi impresa rischiosa, il capitale non è più un elemento irrilevante, o comunque scarsamente rilevante, rispetto ad una attività di intermediazione che ha nelle regole della intermediazione la copertura del rischio d’impresa, bensì proprio nella misura del capitale la misura della garanzia contro il rischio dell’attività imprenditoriale.

Dall’adozione di questo modello sono derivati i guai attuali ed, in particolare, quelli delle banche italiane. La misura del capitale è diventato il termine di riferimento quantitativo della attività esercitabile, col risultato che più aumenta il rischio di determinate attività, più aumenta la necessità di aumentare in corrispondenza il capitale secondo quanto previsto dalle prescrizioni del Comitato di Basilea e dalle pedisseque traduzioni comunitarie (la direttiva 2006/49/CE “confessa” addirittura nel preambolo che le disposizioni “concernenti l’importo minimo dei fondi propri degli enti creditizi e delle imprese di investimento costituiscono l’equivalente delle disposizioni dell’Accordo quadro del Comitato di Basilea” …).

Tanto per averne un’idea possiamo provare a tracciare un sintetico diagramma delle prescrizioni partite da Basilea con una “persuasione morale” ma con prescrizioni cogenti per le banche comunitarie, e perciò anche per le banche italiane, a seguito della loro recezione in direttive comunitarie.

Come vedremo sono una specie di caccia spasmodica all’aumento di capitale o alla previsione di accantonare mezzi patrimoniali assimilabili al capitale azionario vero e proprio, per garantire un rischio bancario crescente. E va da sé che il capitale investito in attività finanziarie viene sottratto per definizione al finanziamento dell’economia reale.

Il Comitato dei governatori delle banche centrali ha prodotto il primo accordo sulla disciplina bancaria nel 1988, sostituito, nel 2004, dal secondo accordo (c.d. Basilea II); successivamente alla crisi finanziaria, la disciplina è stata ulteriormente modificata (Basilea III), anche se non è stata ancora applicata, dovendo andare a regime nel lontano 2019.

L’accordo del 1988 prevedeva che l’ammontare del patrimonio degli istituti bancari dovesse essere pari all’otto per cento delle attività ponderate per il rischio. All’interno di tale disciplina, la rischiosità delle attività bancarie veniva calcolata secondo regole basate su cinque fattori di ponderazione commisurata alle caratteristiche dell’emittente (rischiosità quasi nulla per gli Stati sovrani, del 20% per le attività verso banche multilaterali di sviluppo, del 50% per prestiti garantiti da ipoteca su immobili residenziali, del 100% per le attività verso il settore privato).

Tali elementi di valutazione erano tutt’altro che “scientifici”, non solo perché non garantivano un’adeguata corrispondenza al rischio effettivo dell’attività svolta dalla banche, ma anche perché si prestavano a pratiche di “arbitraggio regolatorio” al fine di eludere i requisiti patrimoniali previsti dall’accordo. Fissata la legge trovato l’inganno: le banche trovarono subito una tecnica per portar fuori il rischio dal proprio bilancio, in particolare quello verso il settore privato valutato al 100%, e perciò dal necessario rapporto con il patrimonio nel quale alla fine cominciarono ad esplodere i rischi non coperti da alcuna garanzia con qualche altra piccola complicazione, come ad esempio quella di scoprire che il debito pubblico di certi Stati (Messico, Argentina) non era proprio pari a zero.

La revisione dell’accordo per risolverne gli aspetti problematici ha dato luogo a Basilea II, approvato nel 2004.

Il secondo accordo di Basilea in materia di capitale, a differenza del primo che si riduce a poche prescrizioni, è un documento analitico e ponderoso, di oltre duecento pagine.

Basilea II si articola in tre parti (c.d. ‘pilastri’), di cui solo il primo riguarda le nuove modalità di calcolo dei requisiti patrimoniali minimi; il secondo riguarda il controllo prudenziale nel suo complesso e il terzo è dedicato ai requisiti di trasparenza. La prima parte è la più ampia e dettagliata, il pilastro portante.

Basilea II lascia invariato il rapporto tra patrimonio e attività ponderate per il rischio, ma sostituisce ai coefficienti fissi della disciplina precedente due nuove modalità di calcolo del rischio stesso: nel metodo standard, i coefficienti di ponderazione per il calcolo del rischio delle attività bancarie variano a seconda del rating dei debitori della banca emessi da agenzie specializzate, mentre nel metodo dei rating interni (Internal Rating Based – IRB, a sua volta distinto tra metodo ‘di base’ e ‘avanzato’) la rischiosità dell’attività svolta dalla banca viene misurata sulla base di sistemi di valutazione elaborati e resi pubblici dalla banca stessa.

Non è il caso di sottolineare che anche questi metodi si prestano ad interpretazioni soggettive, per lo più viziate da “ottimismo”.

Basilea II ha subito numerose critiche non appena si è manifestata la crisi economica mondiale. Da più parti si è messa in rilievo l’inadeguatezza delle regole contenute nei “pilastri” per risolvere i problemi via via emergenti.

Prima di tutto si è criticato che le regole non erano vigenti, o ancora vigenti dappertutto. Per i Paesi della Comunità europea ha cominciato a funzionare nel 2007 quando già la crisi era cominciata. Negli Stati Uniti ha cominciato a funzionare nel 2010, quando ormai la crisi era già cominciata da un pezzo favorita, se non determinata, dal mancato rispetto di regole analoghe a quelle suggerite da Basilea II.

Ma di Basilea II è diventato soprattutto problematico il sistema di valutazione basato su rating, sia esterni che interni alla banca.

Per risolvere tale inefficienza, diventata in più di un caso drammatica per la totale non corrispondenza del rating alla realtà, nel dicembre 2010 è stato raggiunto un nuovo accordo, denominato Basilea III, questa volta sollecitato dai governi dei maggiori Paesi mondiali che si riuniscono nel c.d. G20, che intende rafforzare i requisiti patrimoniali ed in particolare prevenire effetti negativi sul ciclo economico generale.

La prima finalità vien perseguita attraverso prescrizioni che modificano la composizione del patrimonio delle banche, al fine di migliorare la ‘qualità’ del patrimonio stesso: viene introdotta una definizione più stringente di capitale delle banche in modo da eliminarne delle componenti fittizie o comunque esposta a sovravalutazioni e viene previsto un innalzamento delle quote di capitale con maggiore capacità di assorbimento delle perdite.

Inoltre viene richiesto alle banche di accantonare un cuscinetto di capitale aggiuntivo, cui poter attingere in situazioni di stress finanziario ed economico (capital conservation buffer, pari al 2,5%). Infine, tali coefficienti sono integrati da un indice di leva finanziaria non basato sul rischio (non-risk-based-leverage ratio): si tratta di un indicatore per limitare il livello di indebitamento del settore finanziario, che richiede alle banche di rispettare un rapporto fisso tra le esposizioni finanziarie e il capitale.

Il secondo obiettivo viene perseguito tramite un ulteriore cuscinetto anticiclico, che ha lo scopo di proteggere il settore bancario da fasi di eccessiva espansione del credito totale (countercyclical buffer, variabile dallo 0 al 2,5%).

Tali previsioni dovrebbero condurre ad aumentare di parecchi multipli il patrimonio effettivo che le banche dovrebbero possedere per far fronte al loro rischio d’impresa. Secondo stime approssimative, ma forse non troppo lontane dalla realtà, il patrimonio delle banche italiane dovrebbe aumentare in media, alla fine di Basilea III, di circa venti volte.

Un peso che il già asfittico mercato dei capitali italiano non potrebbe certamente sopportare, tenuto conto che le nuove indicazioni puntano sul capitale vero e proprio, con riduzione al minimo degli equipollenti patrimoniali, anch’essi, peraltro, decisamente “costosi”.

All’inizio dell’apertura del mercato bancario italiano secondo le direttive comunitarie, nel 1992, si temeva la calata degli Unni. 

Forse, se Basilea III sarà veramente attivata non sarebbe forse troppo fantasioso pensare a concentrazioni transfrontaliere di banche “finalmente” europee e cioè alla definitiva perdita di un connotato nazionale delle banche italiane.

E forse troverà finalmente applicazione la “società per azioni” di diritto europeo, applicata finora dopo tanti anni di discussioni e di studi, proprio ad una banca dell’estremo Nord dell’Europa.

Come è facile constatare tutte le “Basilee” sono caratterizzate da una continua rincorsa fra l’aumento del rischio e l’aumento del capitale proprio, variamente qualificato e variamente composto da componenti che possono comunque fungere da garanzia per nuovi rischi. Va da sé che tale rincorsa mette in difficoltà un sistema come quello italiano che è appena passato dalla banca pubblica, con fondi di dotazione irrilevanti, a società per azioni private, ma costituite attraverso lo scorporo e il conferimento dell’azienda bancaria da parte degli enti pubblici, poi formalmente trasformati in fondazioni di diritto privato, le quali ancora detengono, da sole o con altre fondazioni associate, la maggioranza delle partecipazioni azionarie nella società bancaria.

Gli enti pubblici e il loro omologo di diritto privato, le fondazioni, non sono certamente operatori economici dotati per natura di disponibilità finanziarie impiegabili in progressivi aumenti del capitale delle società partecipate.

Né d’altro canto è facile reperire sul mercato dei capitali nuovi soci, specie in un periodo in cui investimenti del genere risultano sottratti ad una economia reale in crisi. E ciò vale certamente per il mercato dei capitali italiano, ma anche i nostri vicini europei per il momento non se la passano meglio.

Senza contare che in molti casi i nuovi soci non sarebbero neppure graditi. Il caso del Monte dei Paschi è in proposito emblematico tanto da non necessitare di ulteriori commenti.

Ma perché aumenta il rischio e perciò la corrispondente garanzia di capitali propri? Perché la banca universale non fa soltanto l’intermediario fra la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito, anzi, in molti casi, poiché la redditività dell’intermediazione è progressivamente calata fin quasi a scomparire, la tentazione è ed è stata quella di dedicarsi ad attività finanziarie di immediata redditività, ma di esito quanto meno fondato su incerti calcoli di probabilità, che in più di un caso hanno fatto perdere di vista il presupposto bancario di partenza per il quale il “futuro finanziario” ha indotto a trascurare, per usare un eufemismo, lo scrutinio sul merito di credito del destinatario dell’operazione.

Per restare in Italia basti citare le vicende Cirio e Parmalat in cui le banche hanno “assistito” la collocazione di titoli direttamente sul mercato senza alcun scrutinio sul merito di credito dei titoli stessi o, per venire a vicende ben più traumatiche, alla vicenda delle crisi bancarie a catena determinate dai subprime statunitensi, in cui il credito originario, poi cartolarizzato, era stato erogato con riferimento a valori immobiliari inesistenti.

Senza contare il diffuso passaggio anche di reputati istituti bancari al mercato delle “scommesse”. Nelle più disparate versioni permesse dall’ars combinatoria i contratti derivati altro non sono che una scommessa su di un evento futuro, un contratto aleatorio, che, come tale, non dovrebbe far parte del mondo bancario, ma che il mondo bancario ha largamente praticato perché permetteva introiti aggiuntivi rispetto a contratti bancari a bassa redditività. 

Ma si sa, nelle scommesse c’è sempre qualcuno che perde... o che si rifiuta di pagare la scommessa come stanno facendo i clienti delle banche convinti dalle stesse ad assicurare il loro futuro con un “derivato”.

A questo punto, come è noto, qualcuno si è ricordato di Beneduce o lo ha imitato goffamente senza conoscerlo (si allude, ovviamente, a recenti iniziative prima statunitensi, con l’Emergency Economic Stabilization Act, il c.d. Piano Paulson, e, poi, anche, di alcuni Paesi continentali come, ad esempio, gli interventi congiunti di Belgio, Olanda e Lussemburgo nel capitale del gruppo Fortis e in Dexia). Questi imitatori hanno tentato di rimediare alle crisi bancarie, determinate da operazioni finanziarie “avvelenate” perché viziate nei presupposti bancari, occultati da “combinazioni” finanziarie, come le cartolarizzazioni “strutturate” (cioè composte da una pluralità di titoli di riferimento) o i contratti “derivati”, con danaro proveniente dal bilancio dello Stato, non accorgendosi che, se il danaro proveniente dal bilancio pubblico non è danaro vero come quello a suo tempo usato da Beneduce, bensì a sua volta proveniente dal debito pubblico, la crisi della banca si trasferisce pressoché automaticamente sui titoli pubblici, spostandosi semplicemente da un mercato all’altro… dal mercato bancario a quello dei titoli pubblici, mettendo in difficoltà gli Stati.

Il che induce a pensare che probabilmente più che continuare a discutere su standard finanziari di difficile applicazione, di inevitabile elusione quando non graditi o addirittura impraticabili a livello imprenditoriale, e in ogni caso notevolmente costosi nella gestione aziendale, forse è il caso di ripensare alle regole dell’impresa bancaria… Cioè di ritornare dall’oggetto “universale” al soggetto banca.

Forse più che dettare regole che sottraggono finanziamenti all’economia reale bisognerebbe passare ai divieti di attività in modo da favorire il ritorno delle banche alla loro naturale vocazione, cioè di fare solo le banche … Le reazioni sdegnate degli interessati è forse un indice che la strada da percorrere è questa …

Ma, in un mercato ormai globalizzato e con interessi finanziari consolidati, basti pensare alla “piazza” di Londra che ormai vive solo di questo, è più difficile trovare la retta via di quanto non lo fosse ai tempi di Beneduce, il quale, per di più, poteva contare sull’amicizia di un dittatore …

In un tempo che sembra ormai lontano, il 2008, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, intitolava un suo intervento nell’indagine conoscitiva sulla crisi finanziaria internazionale e sui suoi effetti sull’economia italiana, promossa dalla 6° Commissione del Senato (Finanze e Tesoro), “Un sistema con più regole, più capitale, meno debito, più trasparenza”.

A distanza di qualche anno, visti i risultati, forse è il caso di pensare a qualche modifica dell’auspicio contenuto nel titolo…

Se preso alla lettera tale auspicio potrebbe finire col coincidere con la pianificazione quinquennale sovietica che, come è noto, morì per eccesso di burocrazia e per impraticabilità del calcolo delle probabilità insito nelle prescrizioni di piano e, nel nostro caso, in tutti gli strumenti finanziari non bancari che, come abbiamo visto sopra, hanno “avvelenato” il rapporto fra la raccolta del risparmio e l’erogazione del credito…
Fabio Merusi