Aljs Vignudelli
BANCHE & FINANZA O BANCHE DELLA FINANZA?
Anche quest’anno ci ritroviamo presso la prestigiosa sede dell’Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Modena a ragionare in materia di credito e finanza… e non è certo un caso. Infatti, mai come di questi tempi si percepisce – non solo nella riflessione specialistica e scientifica, ma anche in quella semplicemente “pubblica”, per non dire “comune” – il nesso inscindibile (e ormai anche del tutto “tangibile”) fra l’economia virtuale e quella reale. Anzi, la stessa differenza tra le due entità – per sintetica contrapposizione potremmo dire: fra mondo della produzione (di beni e servizi) e quello della finanza –, abbastanza netta in teoria, tende sempre più spesso a sfumare nella pratica, come attestano ad esempio anche le recenti vicende di “salvataggio controllato” indifferentemente accordato negli USA a realtà tanto imprenditoriali quanto finanziarie, sulla base del solo (comune) presupposto che il loro fallimento avrebbe potuto avere sensibili ripercussioni sul sistema economico. Too Big To Fail, senz’ulteriori distinzioni: la General Motors accanto al gigante dell’investimento Bear Stearns, il colosso assicurativo dell’Aig (American International Group) come la Crysler.
Anche sul Vecchio Continente, del resto, l’attualità non manca di confermare che la gestione delle (e il controllo sulle) dinamiche economiche – (gestione) che oggi parrebbe costituire la parte assolutamente preponderante dell’agenda politica degli Stati – non possa omettere di prendere in considerazione congiuntamente i due corni del problema (produzione e finanza = economia reale ed economia virtuale), giacché i problemi originatisi in un àmbito si ripercuotono ormai automaticamente anche nell’altro (e viceversa). Se questo è vero, parrebbe ovvio che anche le soluzioni prospettabili per fronteggiare la situazione – sulla cui serietà non è il caso di spendere ulteriori parole – abbiano oggi da essere necessariamente “integrate”, soprattutto considerando che l’attenzione, sovente ancora “catturata” dagli scoop dei grandi dissesti della finanza (e dalle congetture sulle loro cause), dovrà ora e ben più urgentemente rivolgersi ai (e confrontarsi coi) loro effetti sull’economia globale.
Segnatamente in questa prospettiva sembrerebbe spiegarsi la centralità – ancora non del tutto compresa dal largo pubblico – riconosciuta al ruolo delle banche in ogni ipotesi di riforma normativa rivolta all’incremento della stabilità del mercato attualmente in discussione. Nelle banche, infatti, s’individua non a torto l’imprescindibile “crocevia” fra la dimensione del risparmio, quella del credito e quella dell’investimento (tanto produttivo, quanto finanziario), considerandole così il centro nevralgico di ogni moderna strategia di sicurezza e trasparenza del sistema economico (e, per conseguenza, anche sociale).
Emblematico per questa tendenza alla “responsabilizzazione” del mondo del credito a presidio della stessa stabilità bancaria e del c.d. “governo dei rischi” è, ad esempio, l’obbligo di segnalazione – il cui termine è stato dimezzato – per gli sconfinamenti previsto dal protocollo di Basilea 2, col connesso vincolo a classificare i crediti sconfinati come “deteriorati”: ciò che, a catena, implicherebbe un aggravio dei requisiti patrimoniali, già molto stringenti, che richiederebbero “cuscinetti” (riserve di capitale) di sempre maggiore entità. Più in generale, proprio sugli accantonamenti sembrerebbe giocarsi un’importante scorcio della partita: a quanto dovrebbero ammontare queste riserve e questi capitali? Là dove gli azionisti delle banche propendono a mettere la sordina, con l’intento di limitare i propri rischi, le autorità di tutto il mondo tendono oggi a richiederne il più possibile, per garantire (direttamente) il valore (e la restituzione) del risparmio e (indirettamente) quello della stabilità economica. Segnatamente in quest’ultima direzione parrebbe andare anche la riforma denominata Basilea 3, pensata per rafforzare (entro il 1-1-2019) – attraverso un aumento di qualità e trasparenza del capitale, insieme con la copertura dei rischi – la struttura patrimoniale delle banche e prevenire ulteriori crisi (non senza guadagnarsi così la critica di frenare, in tal modo, la spinta creditizia: dunque i settori più deboli – ma dinamici – dell’economia reale).
In tralice, dietro a queste dinamiche e alle proposte di soluzioni mano a mano emerse, si può ancóra ravvisare la contrapposizione (sia pure soltanto tendenziale) fra il modello “classico” della banca commerciale e quello della banca d’investimento: il primo – cui in larga parte corrisponde la tradizione del sistema italiano – facente perno sull’economia reale, il secondo – maggiormente diffuso in area anglosassone – basato anche e soprattutto sull’economia finanziaria. Non si tratta naturalmente di contrapporre in modo “manicheo” un modello intrinsecamente virtuoso ad un modello strutturalmente vizioso, ma di comprendere e d’inquadrare nella maniera più esatta i vantaggi e i rischi dell’uno e dell’altro, nella consapevolezza che le banche moderne saranno pur sempre destinate a comporre un equilibrio fra queste due istanze di fondo. Qui la domanda, da cui prende spunto il titolo, è: posto che il rapporto fra banche e finanza parrebbe oggidì necessario, è necessario anche (o si può ancora scongiurare) che vi siano (soltanto) banche della finanza?
La risposta a tale quesito è ovviamente complessa, ma se si provassero a indicare delle linee di tendenza in questo oscillare del pendolo, ad un periodo di fortissima espansione globale del modello di banca proiettato verso l’economia finanziaria – talvolta una vera e propria “ubriacatura” per la finanza “fine a se stessa”, dimentichi della profezia di Raghuram Rajan, che già nel 2006, da capo del Dipartimento di Ricerca del Fondo Monetario Internazionale avvertiva: «questi sono i tempi migliori (the best of times) ma sono anche i tempi più pericolosi (the most dangerous of times)» – parrebbe oggi seguire una fase storica in cui l’ancoraggio all’economia reale (almeno entro minimi certi) viene percepito come un valore (non solo eticamente, ma pure pragmaticamente) irrinunciabile.
Discorso, questo, particolarmente valido per quanto concerne la “realtà” delle garanzie per i rischi (di cui gli accantonamenti di capitale, come si diceva, rappresentano il capitolo più importante). Le scelte politiche di fondo, infatti (si pensi solo ai vincoli d’adeguamento dei requisiti di capitale definito dal Financial Stability Board nell’ambito dei recenti lavori del G20 di Cannes), sembrerebbero qui nel senso di evitare ciò che già successe in passato, quando accanto a banche dotate di patrimoni solidi, ad altre era consentito di operare – in forza anche di Attivi il cui rischio era fortemente sottostimato nel giudizio delle Agenzie di Rating – sulla base di patrimoni “reali” modesti, basandosi piuttosto su strumenti “ibridi” valutati soltanto secondo logiche e teorie economico-finanziarie, formalmente assimilati al patrimonio ma, in realtà, più vicini ai debiti che a quest’ultimo. Col che, paradossalmente, si finiva per introdurre elementi di rischio (impliciti negli strumenti finanziarî) anche nelle garanzie contro il rischio.
Insieme alle cautele introdotte per prevenire questi pericoli e valide per tutte le banche, la recente (e perdurante) crisi economico-finanziaria ha poi indotto a ulteriori riflessioni con riferimento a quelle realtà bancarie il cui “peso” e la cui “dimensione” è sufficientemente vasta per influenzare – nel bene e soprattutto nel male – l’intero sistema economico e finanziario globale. Si tratta, come noto, delle cc.dd. Sifi (Systemically important financial institutions), dette appunto anche ‘banche sistemiche’, il cui fallimento non risulta più soltanto un problema (potremmo dire, per approssimazione, essenzialmente di diritto privato) di ristoro dei creditori/risparmiatori, bensì anche e soprattutto una questione (essenzialmente di diritto pubblico) di gestione della crisi a tutela della complessiva stabilità dell’economia e di tutti i consociati quali partecipanti (magari pure obtorto collo) al traffico economico-giuridico. Essenzialmente questa, del resto, parrebbe la situazione che emerge dal vertice di Cannes e che già è affiorata con le recenti (e contestate) “politiche di salvataggio” dell’amministrazione statunitense.
Sul versante europeo Mario Draghi ha sostenuto come «la grande lezione della crisi è che il mondo ha bisogno di un meccanismo di risoluzione delle istituzioni finanziarie, non importa quanto grandi, se queste entrano in crisi», aggiungendo che le misure proposte al G20 dal Financial Stability Board, una volta tradotte in legge, «forniranno alle autorità nazionali tutti i poteri necessari per agire rapidamente e portare a termine un fallimento pilotato di una banca sistemica». In forza delle nuove Leitlineen, ciascuna autorità nazionale dovrà sviluppare un proprio «regime di risoluzione», dove siano chiaramente indicate «le responsabilità, gli strumenti e i poteri» necessarî per “pilotare” il fallimento di una banca, senza mettere a repentaglio le sorti dei contribuenti.
Del resto, anche dall’altra parte dell’Oceano – ovvero proprio in seno al sistema finanziario anglo-americano dal quale l’attuale crisi ha preso origine – in relazione a questo profilo si registrano oggi inedite convergenze, in contrasto (non mai dichiarato e tuttavia abbastanza evidente) coi tradizionali princìpi dell’assoluta libertà (e fiducia nelle possibilità di autoregolazione) del mercato e della tutela della concorrenza. Il nuovo sottosegretario alla giustizia incaricato della politica antitrust, Christine Varney, avrebbe addirittura rivendicato che in questo settore le politiche americane devono “assomigliare di più” a quelle europee (le quali tutelerebbero più i concorrenti che la concorrenza). Una svolta che, se confermata, risulterebbe per certo significativa di un disagio profondo e che infatti non ha mancato di suscitare accese polemiche in patria, dove oggi – anche a causa di ciò – ci si domanda quale futuro in effetti immagina l’amministrazione Obama per l’economia, agitando lo spettro di «una struttura sclerotica e immutabile di grandi aziende che collaborano, sono protette e fanno affidamento su uno Stato onnipotente» (Peter J. Wallison).
Questi (fra gli altri) sembrano i problemi che agitano le tormentate acque in cui naviga l’attuale economia, e di cui s’occuperanno gli illustri relatori di questa giornata di studi.
Anche sul Vecchio Continente, del resto, l’attualità non manca di confermare che la gestione delle (e il controllo sulle) dinamiche economiche – (gestione) che oggi parrebbe costituire la parte assolutamente preponderante dell’agenda politica degli Stati – non possa omettere di prendere in considerazione congiuntamente i due corni del problema (produzione e finanza = economia reale ed economia virtuale), giacché i problemi originatisi in un àmbito si ripercuotono ormai automaticamente anche nell’altro (e viceversa). Se questo è vero, parrebbe ovvio che anche le soluzioni prospettabili per fronteggiare la situazione – sulla cui serietà non è il caso di spendere ulteriori parole – abbiano oggi da essere necessariamente “integrate”, soprattutto considerando che l’attenzione, sovente ancora “catturata” dagli scoop dei grandi dissesti della finanza (e dalle congetture sulle loro cause), dovrà ora e ben più urgentemente rivolgersi ai (e confrontarsi coi) loro effetti sull’economia globale.
Segnatamente in questa prospettiva sembrerebbe spiegarsi la centralità – ancora non del tutto compresa dal largo pubblico – riconosciuta al ruolo delle banche in ogni ipotesi di riforma normativa rivolta all’incremento della stabilità del mercato attualmente in discussione. Nelle banche, infatti, s’individua non a torto l’imprescindibile “crocevia” fra la dimensione del risparmio, quella del credito e quella dell’investimento (tanto produttivo, quanto finanziario), considerandole così il centro nevralgico di ogni moderna strategia di sicurezza e trasparenza del sistema economico (e, per conseguenza, anche sociale).
Emblematico per questa tendenza alla “responsabilizzazione” del mondo del credito a presidio della stessa stabilità bancaria e del c.d. “governo dei rischi” è, ad esempio, l’obbligo di segnalazione – il cui termine è stato dimezzato – per gli sconfinamenti previsto dal protocollo di Basilea 2, col connesso vincolo a classificare i crediti sconfinati come “deteriorati”: ciò che, a catena, implicherebbe un aggravio dei requisiti patrimoniali, già molto stringenti, che richiederebbero “cuscinetti” (riserve di capitale) di sempre maggiore entità. Più in generale, proprio sugli accantonamenti sembrerebbe giocarsi un’importante scorcio della partita: a quanto dovrebbero ammontare queste riserve e questi capitali? Là dove gli azionisti delle banche propendono a mettere la sordina, con l’intento di limitare i propri rischi, le autorità di tutto il mondo tendono oggi a richiederne il più possibile, per garantire (direttamente) il valore (e la restituzione) del risparmio e (indirettamente) quello della stabilità economica. Segnatamente in quest’ultima direzione parrebbe andare anche la riforma denominata Basilea 3, pensata per rafforzare (entro il 1-1-2019) – attraverso un aumento di qualità e trasparenza del capitale, insieme con la copertura dei rischi – la struttura patrimoniale delle banche e prevenire ulteriori crisi (non senza guadagnarsi così la critica di frenare, in tal modo, la spinta creditizia: dunque i settori più deboli – ma dinamici – dell’economia reale).
In tralice, dietro a queste dinamiche e alle proposte di soluzioni mano a mano emerse, si può ancóra ravvisare la contrapposizione (sia pure soltanto tendenziale) fra il modello “classico” della banca commerciale e quello della banca d’investimento: il primo – cui in larga parte corrisponde la tradizione del sistema italiano – facente perno sull’economia reale, il secondo – maggiormente diffuso in area anglosassone – basato anche e soprattutto sull’economia finanziaria. Non si tratta naturalmente di contrapporre in modo “manicheo” un modello intrinsecamente virtuoso ad un modello strutturalmente vizioso, ma di comprendere e d’inquadrare nella maniera più esatta i vantaggi e i rischi dell’uno e dell’altro, nella consapevolezza che le banche moderne saranno pur sempre destinate a comporre un equilibrio fra queste due istanze di fondo. Qui la domanda, da cui prende spunto il titolo, è: posto che il rapporto fra banche e finanza parrebbe oggidì necessario, è necessario anche (o si può ancora scongiurare) che vi siano (soltanto) banche della finanza?
La risposta a tale quesito è ovviamente complessa, ma se si provassero a indicare delle linee di tendenza in questo oscillare del pendolo, ad un periodo di fortissima espansione globale del modello di banca proiettato verso l’economia finanziaria – talvolta una vera e propria “ubriacatura” per la finanza “fine a se stessa”, dimentichi della profezia di Raghuram Rajan, che già nel 2006, da capo del Dipartimento di Ricerca del Fondo Monetario Internazionale avvertiva: «questi sono i tempi migliori (the best of times) ma sono anche i tempi più pericolosi (the most dangerous of times)» – parrebbe oggi seguire una fase storica in cui l’ancoraggio all’economia reale (almeno entro minimi certi) viene percepito come un valore (non solo eticamente, ma pure pragmaticamente) irrinunciabile.
Discorso, questo, particolarmente valido per quanto concerne la “realtà” delle garanzie per i rischi (di cui gli accantonamenti di capitale, come si diceva, rappresentano il capitolo più importante). Le scelte politiche di fondo, infatti (si pensi solo ai vincoli d’adeguamento dei requisiti di capitale definito dal Financial Stability Board nell’ambito dei recenti lavori del G20 di Cannes), sembrerebbero qui nel senso di evitare ciò che già successe in passato, quando accanto a banche dotate di patrimoni solidi, ad altre era consentito di operare – in forza anche di Attivi il cui rischio era fortemente sottostimato nel giudizio delle Agenzie di Rating – sulla base di patrimoni “reali” modesti, basandosi piuttosto su strumenti “ibridi” valutati soltanto secondo logiche e teorie economico-finanziarie, formalmente assimilati al patrimonio ma, in realtà, più vicini ai debiti che a quest’ultimo. Col che, paradossalmente, si finiva per introdurre elementi di rischio (impliciti negli strumenti finanziarî) anche nelle garanzie contro il rischio.
Insieme alle cautele introdotte per prevenire questi pericoli e valide per tutte le banche, la recente (e perdurante) crisi economico-finanziaria ha poi indotto a ulteriori riflessioni con riferimento a quelle realtà bancarie il cui “peso” e la cui “dimensione” è sufficientemente vasta per influenzare – nel bene e soprattutto nel male – l’intero sistema economico e finanziario globale. Si tratta, come noto, delle cc.dd. Sifi (Systemically important financial institutions), dette appunto anche ‘banche sistemiche’, il cui fallimento non risulta più soltanto un problema (potremmo dire, per approssimazione, essenzialmente di diritto privato) di ristoro dei creditori/risparmiatori, bensì anche e soprattutto una questione (essenzialmente di diritto pubblico) di gestione della crisi a tutela della complessiva stabilità dell’economia e di tutti i consociati quali partecipanti (magari pure obtorto collo) al traffico economico-giuridico. Essenzialmente questa, del resto, parrebbe la situazione che emerge dal vertice di Cannes e che già è affiorata con le recenti (e contestate) “politiche di salvataggio” dell’amministrazione statunitense.
Sul versante europeo Mario Draghi ha sostenuto come «la grande lezione della crisi è che il mondo ha bisogno di un meccanismo di risoluzione delle istituzioni finanziarie, non importa quanto grandi, se queste entrano in crisi», aggiungendo che le misure proposte al G20 dal Financial Stability Board, una volta tradotte in legge, «forniranno alle autorità nazionali tutti i poteri necessari per agire rapidamente e portare a termine un fallimento pilotato di una banca sistemica». In forza delle nuove Leitlineen, ciascuna autorità nazionale dovrà sviluppare un proprio «regime di risoluzione», dove siano chiaramente indicate «le responsabilità, gli strumenti e i poteri» necessarî per “pilotare” il fallimento di una banca, senza mettere a repentaglio le sorti dei contribuenti.
Del resto, anche dall’altra parte dell’Oceano – ovvero proprio in seno al sistema finanziario anglo-americano dal quale l’attuale crisi ha preso origine – in relazione a questo profilo si registrano oggi inedite convergenze, in contrasto (non mai dichiarato e tuttavia abbastanza evidente) coi tradizionali princìpi dell’assoluta libertà (e fiducia nelle possibilità di autoregolazione) del mercato e della tutela della concorrenza. Il nuovo sottosegretario alla giustizia incaricato della politica antitrust, Christine Varney, avrebbe addirittura rivendicato che in questo settore le politiche americane devono “assomigliare di più” a quelle europee (le quali tutelerebbero più i concorrenti che la concorrenza). Una svolta che, se confermata, risulterebbe per certo significativa di un disagio profondo e che infatti non ha mancato di suscitare accese polemiche in patria, dove oggi – anche a causa di ciò – ci si domanda quale futuro in effetti immagina l’amministrazione Obama per l’economia, agitando lo spettro di «una struttura sclerotica e immutabile di grandi aziende che collaborano, sono protette e fanno affidamento su uno Stato onnipotente» (Peter J. Wallison).
Questi (fra gli altri) sembrano i problemi che agitano le tormentate acque in cui naviga l’attuale economia, e di cui s’occuperanno gli illustri relatori di questa giornata di studi.
Aljs Vignudelli