Interpretazione e Costituzione

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Lorenza Carlassare


Lorenza Carlassare
Lorenza Carlassare

BIBLIOTECA DEL SENATO “GIOVANNI SPADOLINI”, SALA ATTI PARLAMENTARIRoma, 27 ottobre 2011

È assai difficile offrire con poche parole una descrizione di un’opera tanto vasta e complessa come quella di Aljs Vignudelli, ricca di citazioni, ricchissima di spunti polemici; un’opera sull’interpretazione che tuttavia, non volendo trattarne in modo superficiale, parla necessariamente di moltissime cose, delle moltissime cose che stanno dietro l’interpretazione e l’arricchiscono.

Il percorso compiuto dall’autore è lungo e articolato: partendo dal diritto, esaminato nel concetto e nei fondamenti, traversando la struttura della società (che rileva in particolare a proposito del ‘pluralismo’), i migranti, l’islam, l’ “occidentalismo terroristico”, si arriva alla cultura e al suo deplorevole stato. In questo volume colto, in definitiva c’è, intera, la vita della società, seppure come viene rappresentata dal pensiero dei giuristi. Ed è lo stesso modo d’interpretarla, d’interpretare i fatti sociali oltre che i testi normativi ciò che Vignudelli contesta.

Per introdurre l’opera penso siano utili e indicative le righe che lo stesso Autore ci regala nel Prologo.

Che sia, e voglia essere un libro polemico è annunciato subito apertamente: “Su un tema di per sé stesso duro è attecchito ( e furoreggia) un tale strato d’ulteriori concrezioni di partigianerie da renderlo più impenetrabile d’una blindatura”. Ne emerge una critica a tutto tondo a una serie di assunti – di “miti, mode e luoghi comuni”, dice Vignudelli – che oggi vanno per la maggiore nel dibattito pubblico, basato su “mirabili ponteggi teorici non di rado rivelatisi vuote sacche verbali”: castelli di carte costruiti dalla dottrina che egli si compiace di far crollare, costruzioni artificiose che si compiace di smontare.

Delle reazioni, di cui è ben conscio, non si preoccupa: già nel prologo l’autore prevede le critiche “oltreché d’eresia nei contenuti di stravaganza nei modi che sempre si corrono nell’offrire materiali ai sultanati di turno del bel pensiero”.

L’opera ha finalità ricognitive dell’interpretazione del giurista; un’attività interpretativa, quella propria del giurista, vincolata – dice Vignudelli – al rispetto delle regole metodologiche desumibili dall’oggetto dell’interpretazione stessa, enunciati linguistici in forma scritta. Regole che, pertanto, non potrebbero essere altre che quelle del linguaggio scritto – utilizzato dal legislatore in funzione prescrittiva – che funge da tramite fra emittente e fruitori tutti del relativo messaggio. È importante, nel pensiero dell’autore, sottolineare quel ‘tutti’.

Affermato che le regole dell’interpretazione devono essere osservate, Vignudelli richiama le pre-leggi (art.12) e l’intenzione del legislatore, chiarendone il valore. E passa subito alla critica: l’accertamento dell’esatto contenuto di queste regole, così come la valutazione del loro rispetto non sembrano preoccupare gli studiosi dell’interpretazione, è il suo rilievo. 

In particolare, secondo Vignudelli, non ha giovato un certo uso disinvolto della distinzione fra disposizione e norma che ha indotto a pensare che tutte le disposizioni si prestino a diverse letture, che ogni disposizione sia in grado di esprimere più norme. 

Poiché è una distinzione che ritengo sia stata, e sia, di un’importanza capitale per gli studiosi e per la Corte, cui ha consentito di costruire l’armamentario necessario a procedere e guadagnarsi l’attuale capacità di movimento, mi sono fermata a riflettere sul senso della critica. Tanto più trattandosi di una teoria formulata da Crisafulli, il mio Maestro amatissimo. 

E proprio da qui, in una prospettiva che mi è familiare, credo di aver colto il senso profondo del lavoro di Vignudelli : un richiamo alla “misura”, alla necessità di evitare ogni estremizzazione delle teorie. Ciò che egli critica, infatti, non mi pare tanto la distinzione in sé fra disposizione e norma, quanto ‘l’uso disinvolto’ che se n’è fatto, l’averne ampliato oltre misura i confini, i “ falsi problemi” che si prospettano intorno alla questione. 

Del resto, è negato dallo stesso Crisafulli che da quella distinzione sia possibile ricavare il carattere assolutamente soggettivo dell’interpretazione, al punto da poter concludere che possano esserci tante ‘norme’ quanti sono coloro che leggono il testo legislativo. 

In particolare è negato quando, a proposito delle sentenze additive, Crisafulli limita la possibilità di pronunciarle usando il noto discorso delle “rime obbligate” e così riservando le sentenze additive ai soli casi in cui la norma mancante sia già sostanzialmente implicita nel disposto costituzionale. Così delimitando in partenza il potere ‘creativo ’ della Corte, che poi creativo non è, potendo esplicarsi soltanto in un ambito già definitivo dalla norma costituzionale. Ma forse anche in altro luogo la ‘soggettività’nel ricavare la norma dal testo scritto veniva esclusa in modo implicito, ma altrettanto sicuro: nel momento in cui, trattando il tema delle sentenze interpretative di rigetto, Crisafulli parla di un’interpretazione ‘vera’ (cosa in realtà abbastanza discutibile), facendo pensare che di ‘vera’ possa esserci un’interpretazione soltanto.

Un’opera, come già dicevo, ricchissima di spunti, di dottrina, di materiali, che fa bene emergere la complessità di tutto ciò che sta sotto l’interpretazione: un mondo, in definitiva, in tutta la sua complessità. Il che fa anche comprendere come il richiamo al testo non sia un discorso soltanto formale, come del resto già rivelano la dimensione e l’ampiezza dell’analisi che non si ferma al piano normativo, ma coinvolge i presupposti culturali, i nessi fra diritto e società.

Basterebbe menzionare il paragrafo sui ‘fatti del pluralismo ieri e oggi’, la contestazione del discorso sull’omogeneità della società borghese e il positivismo, in contrapposizione alle società contemporanee “divise, disgregate e conflittuali”. Società nelle quali piuttosto – egli conclude – regna l’omologazione; e cita subito i partiti e la loro crisi d’identità per concludere che non c’è più “pluralismo politico”, che ormai i concetti di destra e di sinistra si sono in qualche modo dissolti. È l’intera società che va verso un’omologazione cocente, “fatalmente inarrestabile e capillarmente corrosiva di ogni margine di autentica autonomia antropologica”; nessuna epoca storica ha conosciuto un simile processo di massificazione, dice l’autore citando Galimberti: una cultura di massa legata al consumo. Ben difficile dargli torto!

La tecnica, in particolare le nuove tecnologie informatiche, portano all’homo insipiens degno frutto delle società in avanzato stato di ‘marzianizzazione’ (dice ancora citando Sartori) e all’impressionante fenomeno dell’appiattimento. 

La parte finale non riguarda la cultura giuridica soltanto, ma lo stato della cultura in generale: un’occasione per fermarsi alle definizioni sociologiche e antropologiche di cultura, sulla cultura del ‘multiculturalismo’ (che si palesa come “una dottrina politico-prescrittiva”, addirittura una “ nuova forma di ideologia”) e le sue ambiguità, denunciandone le semplificazioni.

Non mi addentro nella tematica dell’interpretazione in senso tecnico che le Relazioni di Mauro Barberis e Antonio Baldassare illustreranno. Vorrei soltanto riprendere il discorso iniziale: Vignudelli parte dall’idea che le regole dell’interpretazione esistano e debbano essere osservate. E a tale proposito accenna alle preleggi, all’intenzione del Legislatore, richiamandosi al propium dell’interpretazione del giurista, vincolata al rispetto delle regole metodologiche desumibili dall’oggetto dell’interpretazione: enunciati linguistici, che sono appunto quelli del linguaggio scritto utilizzato dal Legislatore in funzione prescrittiva, dunque concepito per essere osservato.

Apparentemente è un discorso che sembra “chiudere”, eliminare ogni apertura a ciò che va al di là del testo, al di là del linguaggio del legislatore. Ma è un’impressione falsa. A ben vedere, col suo spaziare in tutte le direzioni, tra cultura e società, l’impressione che se ne ricava dalla lettura complessiva è piuttosto quella di un’opera che fa emergere la complessità di tutto ciò che sta dietro l’interpretazione; e fa comprendere come il richiamo al testo non si risolva in un discorso meramente formale.

Al di là dei consensi e dei dissensi su alcune questioni, tentando di sintetizzare la mia impressione, certamente soggettiva, è che quest’opera immensa voglia richiamarci alla misura, all’eliminazione di ogni tentativo o aspirazione o tendenza a portare agli estremi una teoria. Vignudelli qui mette in luce non tanto la negatività delle diverse dottrine, quanto il rischio di portarle ai loro confini estremi, il modo astruso di specularci sopra, insinua dubbi pesanti nelle nostre presunte “sicurezze” indicandone i limiti. 

In tutto questo suo incessante smontare e rimontare i concetti, mi pare si possa individuare un discorso metodologico importante e significativo, l’invito a non estremizzare a cuor leggero le dottrine che sosteniamo. Né quelle, aggiungerei, dei nostri “avversari”, che ci vedono sempre, necessariamente vittoriosi.

Al di là delle impressioni personali che ne ho ricevuto, in conclusione, mi interesserebbe molto chiedere all’Autore qualche ragguaglio circa il suo pensiero nel momento in cui si è accostato a questa fatica.

La domanda sul “come mai hai scritto questo libro” sarebbe troppo banale e addirittura inutile essendo già chiara la risposta fin dalle parole polemiche del prologo. E tuttavia potrebbe trattarsi soltanto di apparenza, la realtà ben potrebbe essere una cosa diversa.

E allora ecco le domande: perché questo percorso? Per lasciare una testimonianza sullo stato della disciplina? Per evidenziare un nuovo sistema di connessioni? Per modificare il paradigma metodologico della scienza giuridica? Cos’altro?

Questa volta lasciamo la risposta direttamente a lui…
Lorenza Carlassare