Interpretazione e Costituzione

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Antonio Baldassarre

Antonio Baldassarre

Ha ben detto Barberis, il volume di Aljs Vignudelli, Interpretazione e Costituzione, è un pamphlet, del quale ha tutte le caratteristiche, nel senso che porta agli estremi sia le teorie criticate, sia quelle che sostiene.

Con un linguaggio simpaticamente particolare l’Autore si fa portatore di un’idea mitica della «interpretazione» come «atto puro» che si risolve nel circuito testo-volontà del legislatore (storico)-testo e, dunque, non si muove dal testo e, anzi, si risolve in esso.

È un’utopia assoluta e, perciò, irrealizzabile – o, se si vuole, un mito – che riporta in auge, estremizzandolo, un tentativo già praticato negli USA nel corso degli anni ‘70/’80 in nome di un literal approach all’interpretazione costituzionale. Fu un tentativo di rovesciare la consolidata giurisprudenza basata sul «principio di ragionevolezza» (inaugurata con il caso Lochner del 1905), messo in atto da Robert Bork e Antonin Scalia e ben presto fallito, essendosi rifiutate tutte le corti di seguirlo.

È una forma di «positivismo giuridico» che muove da un concetto di «interpretazione» separato e isolato da quello di «applicazione» e di «integrazione» (se pure nella formula del gadameriano Perfektionismus). Un concetto etereo, quasi angelico.

Perché se è vero – come dice Vignudelli in polemica con Zagrebelsky – che non si può definire una norma come giuridica solo in quanto è justiciable (ad es. le convenzioni costituzionali producono norme giuridiche anche se non sono giustiziabili), è pur vero che quando si interpreta una norma si parte sempre dalla domanda «che cosa si deve fare?» e, dunque, «quale ne è l’applicazione?». Se, ad esempio, mi interrogo sul significato del «diritto al lavoro» (art. 4 Cost.), non posso non chiedermi se la relativa norma comporta un «diritto (esigibile) a un posto di lavoro» o, più semplicemente, una politica legislativa volta a favorire l’occupazione: insomma, mi domando quale deve essere l’applicazione dell’art. 4 Cost., perché, come ha scritto Modugno, «interpretare» significa individuare le «possibilità applicative». Ed è chiaro che, per riprendere l’esempio fatto, l’interpretazione più corretta appare essere la seconda fra quelle ipotizzate, non già a causa di una scelta soggettiva, ma innanzitutto in conseguenza di un’interpretazione sistematica, poiché l’art. 4 va armonizzato con l’art. 41 (libertà d’iniziativa privata) e con l’art. 97 Cost. (efficienza della pubblica amministrazione), rispetto ai quali una pretesa al posto sarebbe inconciliabile.

E qui veniamo a un punto decisivo: l’interpretazione di una singola norma mai può prescindere sia da un confronto con le altre norme con le quali fa sistema (normativo), sia da una ponderazione delle conseguenze pratiche (= nel mondo reale, nella società effettiva presente) producibili in base all’ipotesi interpretativa considerata.

Ma l’una e l’altra operazione non si limitano a questioni di puro vocabolario, come sembra supporre l’Autore: se così fosse, non ci sarebbe bisogno né di giuristi, né di laureati in legge. Al contrario, comportano complicati confronti con le definizioni legali più appropriate e con gli istituti giuridici coinvolti, oltrechè complesse analisi prognostiche di tipo probabilistico e inevitabili valutazioni o ponderazioni di valore, condite da argomentazioni logiche e fattuali. Parafrasando quanto Croce diceva delle «idee», i «significati» non sono come i caciocavalli appesi con sopra un’etichetta corrispondente a ciascun «nome» che l’interprete spicca dal dizionario. Non c’è «interpretazione (giuridica)» senza «argomentazione». Ma non si può dire, come dice Vignudelli che la prima precede la seconda. È vero proprio il contrario, a meno di confondere il risultato del complessivo processo interpretativo con l’interpretazione prima facie o «pre-comprensione», che dir si voglia.

Del resto, uno dei più grandi linguisti del secolo scorso, Alfred Tarski, ha affermato che ogni attribuzione di significato implica una valutazione (e, dunque, un certo grado di soggettività), se non altro perché ogni nome (che assai raramente ha un solo e univoco significato) dev’essere inserito, per essere compreso, in un determinato «universo del discorso»: nel caso di una norma, in un determinato sistema normativo.

In effetti, Vignudelli in tutto il suo volume assegna al termine «avalutativo» un significato così ristretto (e irreale) che neppure il teorico-principe della Wertfreiheit si sognava di ascrivergli. In uno dei suoi saggi sul «metodo» (p. 62, tr. it.) Max Weber ha affermato che la «relazione ai valori» è essenziale e ineliminabile pure nell’ambito di una «scienza sociale» (avalutativa), se non altro perché il ricercatore non può non selezionare il «materiale» (nella specie: le norme di contesto e i tratti caratteristici del campo di applicazione della norma considerata) sulla base dei propri «interessi» (preferenze o valori, secondo Weber). «Valutativo» è, per Weber, soltanto il giudizio che fa dipendere la «validità» della ricerca da un vero e proprio «giudizio di valore», cioè da una preferenza soggettiva (= valore, per Weber). Avendo ben chiaro ciò, ha precisato lo stesso Weber nel saggio sulla Wertfreiheit, non contraddice l’imperativo della «avalutatività» che uno «scienziato (sociale)» e quindi un giurista, «si occupi dei «valori» come oggetto della propria indagine empirica… (poiché) in quanto oggetto (di indagine) non vengono in questione come ‘norme’, bensì come ‘fatti’», ossia come dati testuali ideali esistenti (positivi) sui quali verte l’interpretazione. Insomma, affinché si resti nel campo del giudizio avalutativo, l’importante è che non sia il ricercatore a stabilire la «validità dei valori» e, quindi, che questa non sia il frutto di una scelta soggettiva dovendo dipendere da un evento oggettivo. Evento che, nel caso specifico del giurista, è l’atto (o il fatto) positivo di normazione (= fenomeno empirico) posto in essere dal legislatore o dal costituente.

Agganciandomi a ciò vengo alle critiche che mi rivolge Vignudelli quale sostenitore del c.d. «neo-costituzionalismo». A differenza di Smend, Häberle, Alexy, Zagrebelsky, Mengoni e altri e in armonia con la sessantennale giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, ho sempre detto che, per me, i «valori costituzionali» sono i principi normativi supremi racchiusi nelle disposizioni positivamente contenute nella costituzione. Dunque, nella terminologia di Weber e in assonanza con le teorie di Max Scheler e di Nicolai Hartmann, sono datità normative (e perciò ideali) di carattere obiettivo, che, come dice lo stesso Weber, possono essere oggetto di indagine avalutativa come lo sono i «fatti empirici». Il mio (ma anche quello della dottrina e dei giudici tedeschi) continuo riferimento a Scheler e a Hartmann ha precisamente questo significato: distinguere la mia concezione dei valori costituzionali da quella, di origine neo-kantiana, che li configura sempre e ovunque come «preferenze personali» o «criteri soggettivi di ordinazione del reale» (come avviene in Dilthey o Rickert, ovvero in Lotze o in Hermann Cohen e, ancora, in Kelsen). Ed è assolutamente inutile che Vignudelli riprenda le critiche che mi rivolge Rimoli, relative alla (presunta) insostenibilità teorica delle filosofie generali di Scheler e di Hartmann (peraltro diverse e inconciliabili tra loro, essendo, l’uno, fenomenologo e, l’altro, sostenitore di un ontologismo critico). Si tratta di obiezioni fuori centro, poiché non mi sono mai sognato di seguire le loro (pur diverse) filosofie. Ho invece indicato la loro coincidente visione dei «valori» come «principi normativi obiettivi (o ‘materiali’)» e la possibilità di trarre dalle loro analisi preziose suggestioni sulla «logica dei valori» (perché, come dicono Lotze e Schmitt, i «valori hanno una loro propria logica»), quali quelle relative alla gerarchia dei valori, all’opposizione di valore, al «grado» e al «peso» dei valori: si tratta di nozioni da loro elaborate per l’etica e trasferibili, mutatis mutandis, nel discorso giuridico.

L’errore che io vedo nelle critiche che mi rivolgono Vignudelli e tutti i giuspositivisti come lui è quello di confondere il fatto che i «valori» sono un dato normativo oggettivo di ogni costituzione degna di questo nome (cosa che lo stesso Marx Weber ammetteva nell’ambito di un sapere a-valutativo) con il fatto di assumere le proprie «preferenze» soggettive (= valori in senso neo-kantiano) come criteri per decidere quale sia la valida (= corretta) interpretazione di una disposizione costituzionale. Anzi, per quanto mi riguarda, non ho mai lesinato critiche ai sostenitori di un «neocostituzionalismo ‘moralistico’», i quali, subordinando il diritto all’etica e concependo quest’ultima in modo «relativistico», finiscono per de-normativizzare la costituzione (che verrebbe a coincidere, non già con ciò che essa dice obiettivamente, ma con le ‘letture’ che se ne danno) e per celebrare il conformismo (o la tirannia) dell’opinione dei più (una sorta di «senso comune» prodotto nell’arena della public opinion, il quale, come diceva Manzoni, è nemico del «buon senso», tanto che emerge quando questo si ritrae). Secondo me, le teorie di Smend, Häberle, Dworkin, Zagrebelsky, Alexy (se pure, quest’ultimo, nell’ambito di un’etica ‘utilitaristica’) appartengono a tale criticabilissimo filone. In realtà, l’unico ethos che un giurista del diritto positivo può considerare è quello implicito (o coerente con quello incluso) nei valori (principi) costituzionali positivamente vigenti, cioè l’ethos civico voluto dal costituente.

Tutta la polemica serrata e iconoclasta che Vignudelli fa contro lo «Stato costituzionale» e il «pluralismo» (di diritto e di fatto)» è resa vana dalla considerazione di stretto diritto positivo, secondo la quale, da un lato, è sancita la «rigidità» della costituzione con un controllo di costituzionalità delle leggi e, dall’altro lato, sono riconosciuti e garantiti vari diritti di libertà (morale e materiale) degli individui e dei gruppi sociali (associazioni, sindacati, partiti, etc.). E anche il «principio di ragionevolezza» non è una superfetazione costituzionale imposta da forzature soggettivistiche dei giudici, come vorrebbe Vignudelli, ma ha la sua base specifica nei due commi dell’art. 3 Cost., una volta che questi siano correttamente e approfonditamente interpretati.

Più precisamente, l’«eguaglianza davanti alla legge», oltre a implicare la «generalità» di principio delle norme legislative, impone la parità di trattamento e, dunque, esige un controllo sia sul se le «classificazioni» effettuate dalle leggi siano state compiute ‘ragionevolmente’ (= in modo da non comportare assurde differenziazioni o arbitrarie equiparazioni), sia sul se il «trattamento» considerato sia equivalente o proporzionato rispetto a quello di fattispecie identiche o analoghe (= tertium comparationis). Viceversa, le ipotesi di eguaglianza non coperte da quelle appena illustrate sono tutte radicate nel principio dell’ eguaglianza «di fatto» (c. 2°), il quale, comportando ipotesi legislative contenenti trattamenti «preferenziali», ne giustifica la legittima adozione ai valori costituzionali ultimi, tanto individuali quanto collettivi, («pieno sviluppo della persona umana» ed effettiva partecipazione alla vita sociale e politica). Da ciò consegue – oserei dire sillogisticamente – che ogni disciplina legislativa diretta a “rompere” la formale parità di trattamento dev’essere sottoposta allo scrutinio relativo alla «coerenza» con tali valori ultimi.

Per comprendere quest’ultimo punto occorre, però, considerare un profilo generalmente trascurato. Nel giudizio di costituzionalità e, dunque, nell’interpretazione pratica delle disposizioni costituzionali l’interprete non è chiamato a enucleare quella che comunemente viene chiamata la «regola del caso», vale a dire quella che Kelsen chiama la «norma individuale» (= la norma specifica disciplinante una controversia concreta tra parti che pretendono ambedue questo o quel diritto soggettivo). Qui cioè, non è richiesta alcuna Konkretisierung, né c’è spazio per il sillogismo pratico (che non può essere confuso con il rapporto totalità/parte o genere/specie, esigendo invece la presenza nella premessa minore di un «individuo», di un «questo qui») per il fatto che non c’è alcun «caso» (non ci sono neppure le «parti», ma solo «interventori»). Ci sono, invece, due proposizioni normative – una «di principio», che funge da parametro, e l’altra, regolante una determinata fattispecie legislativa, che è l’oggetto del giudizio – rispetto alle quali il giudice deve valutare la reciproca compatibilità. Si tratta, dunque, di un giudizio ‘astratto’, che proviene bensì da un giudizio ‘concreto’ (= su un «caso»), ma che non può essere confuso con questo e, comunque, non lo riguarda neppure indirettamente, essendo la sentenza della Corte erga omnes (normativa) e, perciò, riferendosi la stessa anche a possibili «casi» futuri, simili o analoghi. Senza entrare qui nei dettagli (non permessi dalla brevità del tempo), in tal caso il giudice costituzionale si trova a confrontare logicamente una «regola» (legislativa) con due (opposti) principi (valori) costituzionali (di solito, uno individuale, per lo più una libertà, e uno collettivo, come l’ordine pubblico o il buon costume), nel senso che verifica se la “regola” rientra nel o è coerente logicamente (razionalmente) con lo «spazio di legittimità» emergente dalla contrapposizione dei due valori costituzionali coinvolti. Il «bilanciamento» serve a determinare questo «spazio» sulla base di tecniche o ‘prove’ (tests) consolidate.

L’idiosincrasia, a volte confinante con il disprezzo, che Vignudelli mostra verso la giurisprudenza lo costringe a collocare la sua teoria dell’interpretazione sul piano della pura conoscenza del “vero” significato delle disposizioni normative. Per lui «interpretare» è un erkennen, non, come credo io, un verstehen. In realtà, come ha scritto Lévinas, il discorso normativo è un «intendersi fra», che Massimo Cacciari traduce con un «fra-intendersi». È «comunicazione» e questa «n’est pas une modalité de la connaissance». Cercare la «verità» nell’interpretazione giuridica è un fuor d’opera, poiché, come ha scritto Rawls, mentre le scienze teoriche cercano la «verità» quelle pratiche cercano la «giustizia». Del resto, se fosse la «verità» l’obiettivo dell’interpretazione giuridica, questa dovrebbe presupporre, come osserva Natalino Irti, un legislatore razionale o, come si diceva decenni fa, «omnisciente».

È curioso, però, che quella appena ricordata, che è una critica tradizionalmente rivolta al «positivismo giuridico», Vignudelli la sollevi contro il «neo-costituzionalismo». E la stessa cosa fa con altre due critiche in tempi diversi mosse allo stesso giuspositivismo: la tendenza ad avallare le situazioni di fatto e la giustificazione del «soggettivismo» nella determinazione (del significato) delle norme. Ma non si fonda, forse, il positivismo sull’assioma «jus quia iussum», e cioè che è diritto ciò che di fatto vuole il sovrano del momento? E, quanto al «soggettivismo», basta ricordare le avventure teoriche di due fra i più grandi giuspositivisti del secolo scorso, Georg Jellinek e il suo allievo Hans Kelsen: l’uno fonda il diritto su un a priori psicologico (il senso del limite), l’altro, che peraltro riconosce all’interprete la più elevata discrezionalità possibile, fonda l’ordinamento giuridico su un’ipotesi (Grundnorm), cioè su un contenuto di pensiero dell’Iotrascendentale.

In definitiva, Vignudelli vuole un ritorno al «diritto per regole» di un secolo fa, quando la costituzione, consistendo nella sua essenza in «principi», aveva solo un valore direttivo con un prevalente significato politico. Questo mondo non c’è più e non tornerà mai più, non solo perché è venuta meno la sua condizione storica, (Stato = sovrano assoluto), ma anche perché s’è dissolta la sua base filosofica.

I padri spirituali del positivismo giuridico sono stati Hobbes («auctoritas facit legem») e Kant, i quali erano convinti che l’essenza del diritto fosse il «comando (eteronomo)» dello Stato (sovrano), di modo che la volontà del sovrano era per ciò stesso vincolo per il «suddito». La lex coincideva con lo jus e questo era conoscibile «scientificamente» sia perché era prodotto della razionalità umana, sia perché l’interprete, in quanto essere umano, era fornito di categorie a priori (spazio e tempo) comuni a ogni essere razionale. Tuttavia, da un lato, come avevano previsto i costituenti americani, si è presa consapevolezza che nello Stato dei partiti la legge (ordinaria) è semplicemente il frutto di una interessata maggioranza politica, la cui volontà potrebbe confliggere con i principi fondativi (valori) dell’unione politica mettendone in pericolo la sopravvivenza.

Dall’altro lato, poco più di un secolo dopo, le scoperte di Einstein e della fisica quantistica hanno distrutto la pretesa scientificità (kantiana) basata sulle categorie a priori scoprendo che «spazio» e «tempo» sono dimensioni «relative» e, dunque, non possono garantire che una conoscenza sia scientifica in base all’innata «razionalità» umana. Così nel secolo XX la filosofia (Heidegger) ha effettuato la sua svolta copernicana (incompatibile con il positivismo), secondo la quale l’«essere», o il «dover essere», sono comprensibili solo a partire dall’«esistere», cioè da un particolare «esserci» storico-sociale.

Da qui nasce l’«ermeneutica» moderna, non, come dice Vignudelli, da un preteso post-modernismo nichilistico. Per essa la lex del «sovrano» non coincide più con lo jus, essendo quella il punto di riferimento e l’orizzonte a partire dai quali l’interprete (portatore di un proprio condizionamento storico-sociale) deve pervenire, attraverso complessi adattamenti al «presente», allo jus, alla «norma vivente» nella sua più piena e circostanziata storicità (attualità). È, come scrive Gadamer, nella «fusione» tra questi due «orizzonti» – quello del legislatore (costituente) e quello dell’interprete – che si compie l’«interpretazione».

Questo è l’«arcano» che sta dietro al fatto che la Corte americana da oltre cent’anni, la Corte tedesca da più di sessant’anni e quella italiana da circa cinquant’anni applicano modalità interpretative (variamente) assimilabili alla teoria ermeneutica dei valori e rifiutano le «profferte» di un ritorno alle tecniche del positivismo (che si riducono, poi, a quelle autentiche banalità, a quei mostriciattoli del pensiero giuridico, racchiusi nell’art. 12 delle preleggi, abrogati, peraltro, da una contraria consuetudine interpretativa di rango costituzionale, costante, come detto, da circa mezzo secolo!).

Ciò che i giuspositivisti, a mio avviso, non comprendono è che la «rivoluzione copernicana» effettuata dai filosofi del primo Novecento è avvenuta, più o meno negli stessi tempi, nel diritto per opera dei grandi costituzionalisti di Weimar: Schmitt, Smend, Heller, non però Kelsen (che, tutto proteso a “salvare” teoricamente il giuspositivismo contro il fantasma del giusnaturalismo, non ha mai compreso la grande novità rappresentata dalla costituzione). Soprattutto Schmitt, il più vicino (nel bene e nel male) a Heidegger, ha posto chiaramente in rilievo che con la costituzione veniva messo al centro del diritto un problema che il positivismo, per i limiti imposti dal suo «metodo», non è in grado di affrontare, per il semplice fatto che, per esso, è un dato indiscutibile afferente alla «politica», non al «diritto»: il problema di «chi è il sovrano?». Se la costituzione (rigida) determina la «forma politica» dello Stato, non è più, come la costituzione «flessibile», un atto di un sovrano «pre-costituito» (lo Stato-persona o, prima ancora, il monarca), ma determina essa stessa chi è il sovrano. E in ciò, dice Schmitt, sta l’essenza della costituzione, che distingue quest’ultima da ogni altra legge, inclusa la legge costituzionale (e questa distinzione è fondamentale per il costituzionalismo, mentre è innaturale e illogica per il formalismo positivista). Purtroppo, anche per la «condanna» morale del nazista Schmitt (ma pure per l’ultrattività dell’idealismo attraverso Croce e Gentile), questa lezione è stata percepita tardi e male dai giuristi italiani ed è tuttora misconosciuta e/o discussa. Non è mai troppo tardi!

Il volume di Vignudelli, però, non è un semplice appello a favore dell’interpretazione in stile positivistico. Anzi non è un libro soltanto sull’interpretazione. L’Autore va sempre alle radici filosofiche delle sue posizioni giuridiche e propugna un approccio teorico innovativo (literal). Tuttavia, pur apprezzando il fatto che egli è cosciente che l’unico sostegno teorico-filosofico del giuspositivismo può essere oggi la «filosofia del linguaggio» – vale a dire un tecnicismo grammaticale/sintattico che ha apportato molto alla (sola) linguistica, ma è pur sempre un ramo secco e improduttivo nel panorama filosofico – mantengo per intero le mie critiche di fondo.
Antonio Baldassarre