Interpretazione e Costituzione

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Mauro Barberis

Mauro Barberis

La principale difficoltà che ho nel confrontarmi con questo libro è il rapporto ormai affettivo che mi lega al testo: mi ha seguito per un’intera estate in tutti i luoghi in cui mi sono spostato, sempre nella illusoria ambizione di riuscire a leggerne tutte le 1291 pagine. È un libro che, nonostante le dimensioni, potrebbe essere ascritto anche alla categoria dei pamphlet: un godibilissimo pamphlet, contro i teorici, sia costituzionalisti, sia teorici del diritto, dell’interpretazione costituzionale. Peraltro, il libro avanza anche una proposta di politica dell’interpretazione costituzionale radicale e tutt’altro che ingenua, con la io quale vorrei fare i conti in modo serio e analitico. La proposta è tornare a interpretare la Costituzione come una legge ordinaria. Userò le espressioni “interpretazione della costituzione” in senso neutro, “interpretazione della legge” e “interpretazione costituzionale” per distinguere due possibili concezioni della prima, sulle quali ferve, o forse ferveva, la discussione sulla specificità dell’interpretazione costituzionale: l’interpretazione della Costituzione è, o può essere ridotta, a mera interpretazione della legge, o è irriducibilmente qualcosa d’altro, appunto quello che oggi si chiama interpretazione costituzionale?

Aljs Vignudelli sostiene che tornare a interpretare la Costituzione come se fosse una mera legge ordinaria servirebbe a due obiettivi: ristabilire la certezza del diritto e rendere l’interpretazione più trasparente e controllabile ai comuni cittadini. Da cittadino, sottoscrivo entrambi gli obiettivi, ma da teorico del diritto credo che siano irraggiungibili, almeno insieme: non si possono avere insieme un’interpretazione più certa e più vicina ai cittadini. Chiarisco subito perché: credo, come gran parte dei teorici analitici italiani, che il linguaggio giuridico sia un linguaggio amministrato dai giuristi, come lo chiama Mario Jori, giuristi che attraverso tecnicizzazioni e ridefinizioni dei vocaboli gestiscono il linguaggio giuridico; se la proposta è quella di tornare, o approdare per la prima volta, a una sorta di interpretazione del linguaggio ordinario, credo che siamo su una strada politicamente nobile ma teoricamente sbagliata. 

Le cose che voglio dirvi sono divise in questa maniera: Aljs propone di applicare all’interpretazione della Costituzione i criteri interpretativi dell’articolo 12 Preleggi e dell’articolo 28 della legge 87/53. Questo permetterebbe di fare tabula rasa dell’interpretazione costituzionale eliminando tra le altre cose anche il controllo di ragionevolezza ex. art. 3 comma 1 cost. Nelle tre parti di questo mio intervento esamino gli argomenti addotti da Aljs per ognuna di queste tre disposizioni, articolo 12, articolo 28 e articolo 3 Cost., e per togliere qualsiasi suspence sulle mie conclusioni dico già da subito che, se la proposta di Aljs è quella che ho appena presentato, io la riformulerei così: promuoviamo senz’altro la correttezza e la trasparenza dell’interpretazione della Costituzione, ma della Costituzione vigente o vivente, ossia dei significati che la Costituzione stessa è andata assumendo in 60 anni di interpretazione costituzionale. 

Per ognuna delle tre disposizioni alle quali mi riferisco faccio la stessa cosa, al rischio di apparire pedante, specie parlando a persone che conoscono tutte a memoria le disposizioni di cui parlo: ossia cito la disposizione, ne ricostruisco l’interpretazione vigente o vivente, e la oppongo alla proposta interpretativa di Vignudelli. Preciso che in un eroico sforzo di rispetto del principio di avalutatività mi astengo dal proporre interpretazioni delle disposizioni che considero, mi limito a registrare quelle che a me sembrano le interpretazioni prevalenti o vigenti. Far così, d’altra parte, mi permette di insinuare che chi tiene, come Aljs, al fine della certezza del diritto dovrebbe guardarsi bene dall’indebolire il mezzo più efficace per conseguirlo: ossia appunto il parziale consenso raggiunto dagli interpreti sull’interpretazione di alcune disposizioni. 

Partiamo dall’articolo 12, intitolato “Interpretazione della legge”: «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». Il titolo, nella mia terminologia teorica, usa “interpretazione” nel senso generico del vocabolo, riferito a tutte le attività dell’interprete e in particolare del giudice: che sono poi l’interpretazione in senso specifico, ossia l’attribuzione di significato a un testo, di cui parla soprattutto il primo comma, e quella forma di interpretazione in senso generico che è l’integrazione di cui parla al secondo comma.

Perché insisto su questa distinzione? Perché suppongo, con un minimo di arroganza teorica, che l’annoso problema della specificità dell’interpretazione costituzionale si risolva, o forse si dissolva, proprio così: con Vignudelli e con il mio amico Riccardo Guastini anch’io credo che l’interpretazione in senso specifico, l’attribuzione di significato alla Costituzione, non sia effettivamente molto diversa dall’interpretazione della legge; la specificità dell’interpretazione costituzionale sta altrove, nell’interpretazione in senso generico e in particolare nell’argomentazione costituzionale, dove si sono sviluppate tecniche argomentative specifiche, loro sì, alle quali spetta il nome di interpretazione o meglio ancora di argomentazione costituzionale.

Per decenni, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’idea maggioritaria era che l’articolo 12 potesse essere applicato all’interpretazione di tutto il diritto italiano, Costituzione compresa: che, quindi, i due criteri interpretativi, significato proprio delle parole e intenzione del legislatore, valessero anche per la Costituzione. A me sembra che prima degli anni Novanta del secolo scorso, ma indiscutibilmente da allora, sia cambiata anche l’interpretazione della legge; già era difficile far rientrare tutte le forme di interpretazione, oggettiva e soggettiva, nelle due formule dell’articolo 12, ma adesso c’è una novità tanto significativa che non possiamo ignorarla: l’interpretazione adeguatrice, ossia l’interpretazione in conformità ai principi costituzionali attraverso la quale si realizza quella forma di irradiazione dei principi di cui parlano i giuristi tedeschi e che il mio amico Guastini chiama costituzionalizzazione. Prima della costituzionalizzazione si poteva forse ancora dire che la legge ordinaria era interpretato sulla base dell’articolo 12, adesso non si può più dirlo.

So che questo non è decisivo rispetto alla tesi di Vignudelli perché lui considera tutta questa storia della costituzionalizzazione solo un’interpretazione, o peggio una narrazione, dei costituzionalisti, che lui non accetta. In particolare, la attribuisce non solo ai costituzionalisti ma anche a quei particolari teorici del diritto che noi, a Genova, per criticarli, sempre a partire dagli anni Novanta, chiamiamo neocostituzionalisti. Però anche qui gli faccio notare che questa narrazione da lui considerata sospetta era condivisa da Livio Paladin, già quando, nel Novantatre, scriveva che la logica della preleggi, cito letteralmente, «è stata completamente ribaltata dalla Costituzione repubblicana». Detto questo, il mio potrebbe sembrare una specie di attacco frontale al libro, ma il mio dissenso si limita alla sua tesi di fondo: penso – ed è stato l’autore stesso a chiedermi di dirlo – che la sua proposta di politica dell’interpretazione suoni altrettanto paradossale quanto cercare di reintrodurre nel tubetto il dentifricio già spremuto. Detto altrimenti, il sistema giuridico italiano si è evoluto in una certa direzione, e non solo, riportarlo indietro è impossibile, ma contrasterebbe con quello stesso ideale di certezza del diritto al quale, in qualche modo, tutt’e due aderiamo.

A proposito dell’articolo 12, in particolare, il testo di Aljs merita di essere attentamente considerato perché aggira molto bene tutte le obiezioni teoriche, anche sofisticate, che sono state avanzate nei confronti dell’idea stessa che questa disposizione possa essere utilizzata per interpretare la Costituzione; in particolare l’argomento secondo cui l’articolo 12 è pur sempre una legge ordinaria, mentre la Costituzione è la Costituzione. In realtà non c’è conflitto tra l’articolo 12 e la Costituzione perché la Costituzione non detta regole sulla propria interpretazione, se non forse quanto dice l’articolo 134 Cost. poi attuato dall’articolo 28; sul punto delle tecniche di interpretazione e di argomentazione, peraltro, non c’è conflitto puntuale tra Costituzione e articolo 12, e almeno da questo punto di vista le tesi di Aljs restano perfettamente sostenibili. Quindi l’unica obiezione resta sempre quella della costituzionalizzazione del diritto italiano: in questi sessanta anni si è sviluppato un processo che è impossibile invertire.

Poiché Aljs contesta proprio l’idea che questo processo ci sia stato e che si sia consolidato, peraltro, io sono in debito nei suoi confronti di un’altra obiezione, più teorica. La formulo così nei termini di quello che chiamo il paradosso della tecnicizzazione. Dai tempi degli antichi romani, quando il pater familias, a sentire i poeti, dinanzi al desco familiare insegnava ai figli le regole minime del diritto romano, e solo le formule non appartenevano al linguaggio ordinario, il diritto, e comunque il diritto moderno, è diventato un linguaggio amministrato e tecnicizzato. Il paradosso consiste nel fatto che il diritto viene tecnicizzato, ridefinito, amministrato dai giuristi allo scopo di renderlo più certo, meno ambiguo e vago del linguaggio ordinario; senonché, e questo è un esempio di scuola di effetto non intenzionale delle azioni umane intenzionali, proprio il fatto di tecnicizzarlo solleva una ulteriore ambiguità: interpretare un termine o una disposizione del diritto moderno nel suo senso tecnicizzato o nel suo senso ordinario. Quel che propone Aljs, allora, sarebbe semplicemente una detecnicizzazione, cioè una tecnicizzazione al contrario; il dubbio fra senso ordinario e senso tecnicizzato, dopo la tecnicizzazione e anche dopo la detecnicizzazione, non si può più eliminare.

Riguardo all’articolo 28: gran parte delle cose, mutatismutandis, che si possono dire sull’articolo 12 si possono dire anche sull’articolo 28, che è stato discusso al suo apparire da Massimo Severo Giannini, Aldo Sandulli, Vezio Crisafulli, Costantino Mortati, ma non perché abbia il ruolo strategico che Aljs gli attribuisce: dopo tutto è pur sempre una norma di attuazione della Costituzione. La discussione, semmai, è stata suscitata dalla sorta di lapsus del legislatore del Cinquantatre; scrivendo che il controllo della Corte Costituzionale sulla legge o l’atto avente forze di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento, si lasciava pensare che ci potesse essere una sorta di controllo di eccesso di potere legislativo e si sollevava una serie di problemi oggi felicemente superati.

Oggi, in particolare, mi sembra che l’articolo 28 – e in particolare il lapsus sulla discrezionalità che incrinava la tripartizione tipica dello Stato legislativo fra legislazione libera, amministrazione discrezionale e giurisdizione vincolata – potrebbe essere citato a proprio favore dai neocostituzionalisti e non da Vignudelli; sarebbero loro a poter argomentare che già nel Cinquantatre ci si rendeva conto che stavamo passando dallo Stato legislativo allo Stato costituzionale: ossia a un equilibrio tra i poteri per il quale la legislazione non è più un’attività libera, ma attua e applica la Costituzione, con una “discrezionalità” sindacabile dalla Corte ove violi la legittimità costituzionale. Non c’è alcuna violenta campagna dei costituzionalisti e dei neocostituzionalisti, mi sembra, né contro l’art. 12 né contro l’art. 28; al contrario, ancor oggi nessun costituzionalista sarebbe disposto ad attribuire alla Corte Costituzionale un controllo di merito sulla legislazione. Il punto è però che oggi sono chiamati di legittimità anche controlli che nel Cinquantatre, per non parlare del Quarantotto e del Quarantadue, sarebbero stati ritenuti di merito: basti pensare al controllo di ragionevolezza, sul quale verte l’ultima parte del mio intervento.

L’analisi compiuta da Vignudelli dell’articolo 12 e dell’articolo 28 dovrebbe portare a dire che l’interpretazione costituzionale com’è attualmente concepita e alcuni suoi argomenti caratteristici, in particolare il controllo di ragionevolezza, sono destituiti di ogni credibilità: mere invenzioni, escogitazioni di una Corte che si è impadronita di un potere che secondo il diritto italiano vigente, ex articolo 12, non le spettava. Dinanzi a questo pubblico mi astengo sia dal citare l’articolo 3 primo comma nella sua formulazione letterale, sia dal ricordare quale è stata l’evoluzione della sua interpretazione, che è ricostruita puntualmente, se non nel libro qui discusso, certamente nel manuale di diritto costituzionale di Aljs. Io la schematizzo in tre passaggi: in teoria, la disposizione avrebbe potuto essere interpretata come una regola che vieta la discriminazione per quelle sei ragioni e solo per quelle; l’interpretazione dominante, invece, ha ricostruito subito una sorta di principio di uguaglianza formale, che non si limitava ad allargare il divieto di discriminazione a ragioni ulteriori a quelle sei, ma imponeva di trattare casi simili in modo simile, e diversi in modo diverso; alla fine, attraverso vari passaggi, si è trasformato in un principio di ragionevolezza facendo dire a molti, non a torto, che la disposizione era solo un uncino cui appendere la disciplina del controllo di ragionevolezza, non ci fosse stato l’articolo 3 si sarebbe usata qualche altra disposizione.

Di nuovo: questa evoluzione interpretativa si è verificata, non possiamo fare finta che non sia successa. Qui però il testo di Vignudelli ci interroga: sino a che punto questa evoluzione è legittima? Sino a che punto dobbiamo accettare questa deriva interpretativa? Dobbiamo accettare in particolare che l’articolo 3, con un passaggio ancora successivo, possa essere interpretato come un controllo di giustizia? Questo sembra sostenere il Gustavo Zagrebelsky citato strumentalmente dallo stesso Aljs: tutti gli ostacoli opposti a questa deriva, e anche la teoria triadica di Paladin, sono argini fragilissimi, la realtà, ossia l’interpretazione costituzionale, è più forte della teoria ed è la seconda a doversi accordare con la prima. Rispondo a entrambi, e chiudo, leggendo l’ultimo paragrafo del testo preparato per il mio intervento.

Concordo con Zagrebelsky sui compiti della teoria; se davvero la deriva interpretativa impressa all’articolo 3 finirà per sfociare in un controllo di giustizia, alla teoria, alla mia teoria programmaticamente e sistematicamente avalutativa non resterà che prenderne atto: ammettendo che, di fatto, il diritto italiano non è più separato dalla morale, proprio come sostengono i neocostituzionalisti. Prima di arrivare a questo, però, c’è ancora spazio per una dottrina e una giurisprudenza differenti, per un’interpretazione costituzionale più rispettosa del testo e dell’intenzione del costituente; detto altrimenti, e concludo, dissento dalla teoria di Vignudelli ma concordo sugli obiettivi da lui indicati a dottrina e giurisprudenza: continuare a difendere per mezzo dell’interpretazione costituzionale, e non contro di essa, i confini tra legittimità e merito, competenze del Parlamento e della Corte Costituzionale, e anche, se mi si permette, tra democrazia costituzionale e aristocrazia giudiziale.
Mauro Barberis