Interpretazione e Costituzione

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Aljs Vignudelli

Aljs Vignudelli

La sede e il mio stesso ruolo di presentato non m’incoraggiano a procedere in pedanti e polverose repliche tecniche, in larga misura – peraltro – già contenute nella monografia. Confido piuttosto di poterne sviluppare d’ulteriori per iscritto, dialogando nel prossimo futuro con gli importanti studiosi che mi hanno oggi onorato della loro attenzione. Dico “per iscritto” perché – vi confesso –, sebbene il più delle volte faccia fatica a deglutire anche quest’ultimo (lo scritto), digerisco davvero malissimo tutto ciò che è “dibattito”: infatti, nell’attuale “oralità”, ogni volta tutto sembra fatalmente digradare verso una “retorica delle impressioni” o delle malfamate “suggestioni”, se non addirittura esplodere in ghirlande di (apodittiche) “opinioni” che procedono sovente per salti (anche di piano), laddove il vero problema – come avrebbe detto il mio amato Maestro Sergio Fois – è che il carciofo andrebbe sfogliato una foglia alla volta. Viceversa, normalmente si vede praticare quella che Schopenhauer chiamava “l’arte di avere ragione”, dove ogni cosa si risolve in una guerra di stratagemmi, giochi d’enfasi e diversioni di tutti i tipi, in un ensémble dove l’ultimo valore che conta è ovviamente quello della verità. Ecco il perché del mio libro – che si è naturalmente “espanso” per più di mille pagine –, dove ho cercato di fare passo per passo proprio quello non vedevo fare da coloro i quali, sostenendo certe tesi, avrebbero verosimilmente dovuto assumersene il cómpito: vale a dire vagliare la resistenza dei propri assiomi ad una critica serrata e considerare scrupolosamente la stringenza logica dei successivi passaggi argomentativi.

Tanto premesso, mi limiterò qui a proporre alcune riflessioni sulle tematiche più rilevanti che m’è sembrato siano state evocate nelle presentazioni che mi hanno preceduto. 

Il primo snodo mi parrebbe quello dell’avalutatività nell’interpretazione del diritto e la connessa “caccia alle ideologie”. 

Voglio quindi esordire con una domanda che potrebbe apparire provocatoria: è mai possibile che l’unico modo per essere “avalutativi” – diremo qui, per sinteticità, “terzi e imparziali” – in materia d’interpretazione del diritto, cioè nell’individuazione del significato di testi normativi come legge e Costituzione, sia necessariamente quello di limitarsi a censire le opinioni altrui, cioè di giurisprudenza e dottrina, e non invece semplicemente quello di preoccuparsi d’effettuare un’interpretazione corretta dei testi di legge? Io in Interpretazione e Costituzione cerco d’argomentare proprio questa seconda possibilità, contrapponendomi – e analizzando criticamente tutti gli argomenti a loro sostegno – tanto all’idea d’interpretazione come retorica, quanto all’antico dogma di certa filosofia analitica giusrealista secondo la quale i testi non sarebbero idonei a esprimere un loro autonomo significato solo perché giudice e giuristi talvolta ci ricamano sopra di fantasia. 

Questo discorso porta a un’ulteriore domanda, che per così dire spontaneamente s’impone: è la mia per ciò solo un’impostazione ideologica, vale a dire una dottrina prescrittiva, ovvero una proposta d’interpretazione animata da un fine pratico di politica del diritto, come sembra alludere l’amico Barberis? A me pare, obiettivamente, di no. Io non dico a nessuno d’interpretare in un modo invece che in un altro, semmai invito a riflettere in modo critico sui presupposti, cioè sui fondamenti giuridici ed epistemologici, di quell’attività intellettuale denominata ‘interpretazione del diritto e della Costituzione’. 

Questo discorso porta alla seconda riflessione, relativa all’oggetto dell’attività dell’interpretazione, (riflessione) che potremmo intitolare “la pluralità degli oggetti dell’attività interpretativa: dal testo della Costituzione alla Costituzione vivente o vigente”. E qui partirei dalla domanda relativa a quello che è (o che dovrebbe essere) il “materiale” oggetto delle attenzioni interpretative del costituzionalista. Domanda da un milione di dollari vista la quantità di risposte che si sono succedute nel tempo rispetto a tale quesito: costituzione formale, costituzione materiale, costituzione come fonte di unità alla Schmitt (a cui si rifaceva prima Antonio Baldassarre), costituzione vivente (di cui parlava Barberis) e avanti in questo modo. 

È alquanto ovvio che una teoria sull’interpretazione costituzionale possa variare a seconda del significato che si voglia assegnare ai termini ‘interpretazione’ e ‘costituzione’. Non è questo il momento per stare a ripercorrere pedissequamente tutte le varie accezioni nei loro differenti incroci. Nella monografia mi soffermo lungamente su questi profili, e sempre in quella sede cerco d’argomentare la consistenza della scelta da me effettata (e dichiarata espressamente) d’intendere l’interpretazione della costituzione come la ricerca dell’autonomo significato del relativo documento. Non pretendo, ovviamente, che questa sia l’unica accezione (o l’unica accezione utile) sul mercato, e dunque non nego che per ogni accezione ulteriore possa svilupparsi una teoria corrispondente; penso soltanto che quella da cui parto io rimanga l’accezione di default, vale a dire quella a cui la maggioranza di noi pensa (ed alla quale si riferisce) se altro non si precisa. 

Tanto per intenderci: i cittadini e giuristi, quando dicono d’interpretare la Costituzione, articolano i propri ragionamenti partendo da quel testo, e i giudici (ordinarî e costituzionali) sono addirittura giuridicamente vincolati a seguire questo iter. Se questa, come si dice (magari talvolta anche soltanto nelle vesti di semplice foglia di fico), è l’operazione effettuata allora non è evidente l’utilità di svolgere una riflessione teorica specifica proprio su quest’attività e sul suo relativo paradigma di correttezza? E di svolgere tale riflessione senza sovrapporla o confonderla con mille altre possibili, relative ad un diverso oggetto-costituzione? A me la risposta affermativa a questi interrogativi continua a risultare ovvia, e quando si propone qualcosa di diverso il più delle volte le ragioni addotte (e spesso anche il relativo svolgimento) mi risultano oscure come il mistero dei Teschi di cristallo dei Maya. Del resto tutte le necessità cui sembra alludere anche l’amico Baldassarre, (necessità) che sono spesso invocate per giustificare uno scostamento dall’approccio metodologico da me sposato, non mi paiono sufficientemente dimostrate nei loro fondamenti: è un punto, questo, assolutamente centrale e che, nel mio volume, cerco lungamente d’argomentare. 

Una terza riflessione potrebbe poi riguardare l’accusa di “passatismo” (col connesso tubetto di dentifricio). E qui vorrei per onestà subito premettere che da cittadino, pure con qualche esperienza in qualche istituzione, ho sempre creduto in (e difeso) quello della certezza del diritto come un valore irrinunciabile e lo ritengo ancora oggi un assoluto baluardo di civiltà. Ciò non di meno, io non riconosco ad alcun fine pratico – neppure alla certezza del diritto – il ruolo di movente nella mia impostazione in tema d’interpretazione del diritto. Sulla base di tale premessa, pertanto, è piuttosto ovvio che io non mi preoccupi, nel senso che neppure me ne occupo (quanto meno nel mio lavoro scientifico), della difficoltà (pratica) di “rimettere il dentifricio spremuto nel tubetto” o anche – come altri dicono – di “riportare indietro le lancette dell’orologio della storia” agli anni ‘40 del secolo scorso. Semplicemente io non ritengo che questo costituisca direttamente un compito d’una teoria della corretta interpretazione, per quanto poi si possa naturalmente auspicare che una fondata teoria possa costituire la premessa per sviluppare anche una pratica giuridica corrispondente (senza garanzie di riuscita però: infatti quest’ultima dipenderà da una molteplicità di fattori, non tutti esclusivamente teorici). 

A questo proposito, tuttavia, mi limito scherzosamente a osservare – ringraziando l’amico Mauro per aver accondisceso a riprendere pubblicamente l’accenno al tubetto di dentifricio, che avevo avuto modo di leggere nello scritto da lui anticipatomi – che da un lato sì, cercare di rimettere il dentifricio spremuto nel tubetto sicuramente può apparire un’idea poco brillante (men che meno geniale), ma del resto, nel momento in cui ci s’accorgesse che dal tubetto del dentifricio esce del mastice, nulla impedirebbe di prendere in considerazione l’idea di “cambiare cavallo”. E magari dal tubetto nuovo potrebbero fuoriuscire soavi profumi d’antan, senza per questo poter essere accusati di stanchi remake, giacché è la stessa Storia ad essere colma di questi “corsi e ricorsi”. 

Tanto per limitarci ad alcuni esempi, vogliamo parlare dell’amianto e della sua relativa disciplina? Per decenni l’amianto è stato salutato come una panacea per tutti i mali, e ci si coibentavano allegramente ospedali, ospizi, asili nido, scuole, università, case, fabbriche, aerei, motonavi… perfino ci si filtrava il vino. Non mi pare, tuttavia, che adesso vada per la maggiore: saremmo per questo di fronte ad una “ritirata di Russia” nel tubetto? Per citare poi qualcosa che tratto più direttamente nel mio libro, che dire del favoloso pluralismo associativo? Florido nella società medioevale, fiorente per secoli per rientrare rovinosamente nel tubetto della legge Le Chapelier, presente pure con alterne vicende nell’Italia post-unitaria e che infine risplende “più fulgido che pria” con la Costituzione del ‘48. Insomma, se si guardano le “lancette dell’orologio della storia” c’è da farsi venire il mal di testa da come talvolta si è andati avanti, ma pure indietro: e poi bisognerebbe precisare avanti ed indietro rispetto a cosa: alla “cosa giusta”? E. amche qui, giusta secondo quale parametro

E analoghe considerazioni, sulla presunta necessità di “prendere atto” della (nel senso di assecondare la) pratica corrente, possono del resto valere anche per l’uso che i tribunali costituzionali fanno dei documenti il cui significato normativo sarebbero chiamati ad applicare. Se vogliamo stipulativamente chiamare ‘diritto’ tale uso, allora semplicemente questo non è il ‘diritto’ oggetto della mia analisi, ma non è neanche un diritto valido per confutarla, poiché le corti (costituzionali o meno) non sono autorità epistemiche (e proprio quello epistemologico è il piano su cui cerco di articolare la mia analisi sull’interpretazione). In questo senso, così come i tribunali possono fare un uso più o menocommendevole del diritto dal punto di vista politico e giuridico, essi possono anche interpretare correttamente o non correttamente dal punto di vista epistemico, e la considerazione (spesso effettuata) che le loro decisioni sono “definitive” (ma definitive nel risolvere il conflitto pratico loro sottoposto, non certo nel definire il significato delle parole) non è in grado di scalfirla. 

L’ultima riflessione che vorrei proporre si potrebbe intitolare “l’insieme è maggiore della somma delle parti”. È un discorso che tanto Lorenza Carlassare nell’introduzione, quanto (indirettamente) lo stesso Baldassare nel suo intervento evocano quando rilevano che il mio libro tratta di un quid pluris rispetto alla sola interpretazione. E anche qui mi concederò una riflessione che forse potrebbe aspirare alla “top ten” delle banalità, eppure mi sembra importante. 

I miei presentatori hanno messo in luce una serie di questioni, su alcune delle quali ho cercato di spendere qualche parola. Tuttavia, come precisa anche l’amico Barberis, l’analisi critica che si è potuta dedicare al mio lavoro non ha toccato – per forza di cose, s’intende – se non una minima parte di esso (un cinquantesimo, secondo la stima di Barberis in relazione al suo intervento). Ora, a questo proposito vorrei ricordare come nella materia dell’interpretazione – e di riflesso anche nel mio lavoro – i nessi e i collegamenti fra le varie parti non sono solamente importanti, sono la componente essenziale, e per quel che mi riguarda ritengo che il mio lavoro abbia segnatamente in questo – nell’evidenziare i nessi e i collegamenti – il suo miglior pregio (se ovviamente glielo si vuole riconoscere). Si è infatti trattato di un enorme tentativo di collegare tutti quei presupposti che altri – a mio avviso – avrebbero dovuto dimostrare, là dove, viceversa, mancando tali risposte da parte di coloro sui quali sarebbe gravato tale onere, ho finito per farmene carico io. 

Se questo è vero, quindi, un’analisi parcellizzata rivolta al mio lavoro corre il rischio di rivolgere ad esso una critica basata proprio su quei presupposti che in altra sede della medesima opera io espressamente (e, spero me ne si voglia dare atto, argomentatamene) revoco in dubbio. Tanto per fare qualche esempio, rischia di essere limitativo discutere dell’effettiva polisemia dell’articolo 12 Preleggi senza prendere contemporaneamente in considerazione la mia critica ai presupposti epistemologici dello scetticismo interpretativo (che io svolgo in modo, credo, abbastanza serrato per tutto il capitolo primo); e, allo stesso modo, difendere alcuni aspetti della cosiddetta interpretazione per valori senza considerare la mia critica (articolata per tutto il capitolo terzo) ai suoi presupposti fondamentali, quali il concetto di “democrazia pluralista”, di “Stato (neo-)costituzionale”, o lo stesso “pluralismo di fatto”, rischia di figurare come la difesa della chioma di un albero, al quale però si sarebbero tentate d’estirpare le relative radici. E analoghe considerazioni valgono per l’uso e abuso del concetto di “prospettiva”, per la presunta “praticità” della scienza del diritto, per l’altrettanto presunta “funzione integratrice” di quest’ultimo, specie costituzionale. 

Questo discorso si presterebbe facilmente ad essere sviluppato, ed è tuttavia in parte contenuto nei ragionamenti che vorrei svolgere per rispondere alla domanda di Lorenza Carlassare sulle motivazioni che hanno animato il mio lavoro e sul percorso compiuto per realizzarlo. 

Premetto che, fin da giovane, e per quasi tutte le materie che mi è capitato di studiare ho sempre provato un forte fastidio nei confronti dei “miti”, delle “mode” e dei “luoghi comuni”. Fastidio che poi, a “casa nostra”, è accresciuto da decenni e decenni di letture in cui si sono andati affermando un conformismo e un “monocromatismo culturale” tali che ai non osservanti non viene praticamente concesso neppure il lusso di essere educatamente ascoltati. 

E qui si potrebbe anche sviluppare un ragionamento su un certo gusto per la “censurina” o per una certa (più o meno diffusa) inclinazione al controllo sulle pubblicazioni – discorso su cui oggi vorrei sorvolare, ma che in vista delle riforme universitarie (col connesso problema dell’accesso alle riviste) diverrà senz’altro uno snodo cruciale su cui riflettere per bene. E tuttavia dispiace vedere spesso il proprio discorso ridotto a un murmur claustralis, mentre altri eloqui vengono elevati a hortus deliciarum praticamente “per partito preso”. Proprio di “fastidio” parlavo recentemente conversando telefonicamente col professor Giovanni Sartori, il quale con una risata fiorentina mi ha confessato d’impugnare pure lui la penna più che altro per irritazione rispetto a ciò che càpita di leggere e sentire. Segnatamente per queste ragioni, a fronte di questo “teatrino” ho raccolto il guanto della sfida, senza rendermi neppure conto in quale “pozzo di San Patrizio” andavo ad infilarmi: credevo d’intraprendere una “traversatina” dell’Adriatico Ancona-Zara ed era invece l’oceano Pacifico. 

Ma quale sarebbe allora, più nel dettaglio, la premessa del mio fastidio? La situazione generale evoca un po’ quella di un autore americano che ricordava come fosse stato salutato come salvifico l’abbandono delle vecchie, polverose gabbie concettuali del letteralismo, con l’apertura ed il passaggio a una visione anche “sociologica”, salvo che dopo i fuochi artificiali che ne seguirono fecero subito rinascere un desiderio, una Sehnsucht rivolti alle (più ridenti?) sponde delle “buone regole”. Certo, in quella prospettiva si trovava spesso una produzione più godibile, più commerciale, molto più orecchiabile e tanto spiegava anche le ragioni del successo (con le relative standing ovations): tutto diviene meno ostico, più agevole, fino alla possibilità di sostenere contemporaneamente tutto e il contrario di tutto.

Con esiti tuttavia assai discutibili sotto il profilo della credibilità, tant’è che oggi piovono sempre più numerose le lamentele circa il nostro comparto disciplinare da parte di chi pretenderebbe analisi affidabili, unità di misura certe e – soprattutto – responsi terzi e verificabili. E invece assistiamo, da tempo, soltanto a una pioggia di slogan assiomatici (per non parlare poi di stipulazioni talmente anemiche da giungere al languore), utilizzati dal club dei giuristi sovente senza uno straccio di verifica. 

E passi pure per certi “corifei” della materia, rispetto ai quali è noto il percorso metodologico e con i quali ovviamente si può dissentire e discutere, a volte con qualche difficoltà, ma pur sempre con parità delle armi, e rimanendo all’interno di un clima di compostezza scientifica e (con più o meno apprezzabili livelli) di onestà intellettuale. Il discorso cambia tono, viceversa, per quello sciame di “giuristi per caso”, che vola più o meno stancamente dietro la coda dei tedofori di certa pansée: si tratta di quei laudatores temporis acti che Mario Dogliani appella col felice neologismo di ‘packcostitutionalism’, di costituzionalismo “del branco”. 

S’assiste così ad alleanze culturali che parrebbero spartirsi pezzetti sfrangiatati di analisi, quasi tirassero a sorte a chi tocca il “salto audace”, nel miraggio di completare un puzzle sensato e però poi arenandosi regolarmente in una sorta di out of nowhere. Insomma, sembriamo assistere a un’autentica processione di luoghi comuni e di precondizioni tra giuristi di oggi – tutti “assiomi e spot” – anche apparentemente sensati (quanto meno per un lettore distratto), ma che poi vengono mostruosamente amplificati nelle loro conseguenze. 

Tanto per rinfrescare la memoria con un “mazzolino” di assiomi che vanno per la maggiore: crisi della legge, sparizione della sovranità, evanescenza (per non dire inesistenza) della gerarchia delle fonti, turbo-pluralismo all’interno del quale sarebbero immerse le nostre società, mutamento genetico delle costituzioni (non più solo leggi delle leggi, ma creature quasi mistiche con capacità unificanti, spavaldeggianti funzioni integrative, come se fossero una specie di magic box capace di dar risposte “a comando” per qualunque aspettativa sociale). 

E se ci si domanda come si declinerebbe tutto questo nella riflessione sull’interpretazione del diritto, la risposta è facile, giacché anche qui, presso certi circoli, s’è diffusa una serie di miti, mode e luoghi comuni connessi al mondo dell’interpretazione, rispetto ai quali si registrano grossi fraintendimenti di fondo. E allora avanti con la processione degli slogan: il testo della costituzione non conta più niente; tutte le disposizioni sarebbero a plurisenso normativo; ogni atto interpretativo sarebbe creazione o decisione fra più significati; tutto dipende dalla prospettiva di chi legge; le regole linguistiche e quelle giuridiche relative all’interpretazione del diritto non potrebbero mai avere vigore. E avanti ancora con le ghirlande di luoghi comuni: non si può più interpretare senza avere degli obiettivi pratici; non si può più interpretare il diritto senza applicarlo; ogni interpretazione è anche integrazione; l’ermeneutica, che presso larga e grande parte dei filosofi del linguaggio ormai viene data definitivamente al tramonto, a casa nostra sarebbe l’unica tradizione filosofica capace di spiegare l’interpretazione del diritto. 

Né la situazione migliora sul piano costituzionale, dove pure i fuochi d’artificio non tardano a rifulgere. Anche qua a contare sarebbero più le pre-concezioni del giurista che i dati oggettivi, mentre l’interpretazione delle costituzioni dipenderebbe dalle funzioni di queste (implicando così una prospettiva sociologica di studio del diritto). Il senso delle Costituzioni sarebbe quello di conservare e governare un non meglio precisato pan-pluralismo (sociale, politico, culturale, ideologico, etico, giuridico, costituzionale e via enumerando) che neppure si capisce bene se esista e cosa sia. Vivremmo tutti immersi in una cangiante democrazia pluralista, che già nella sua versione “classica” pone seri problemi (democrazia e pluralismo, a conti fatti, non paiono poi tanto compatibili) e che nella sua versione “moderna” poi spesso risulterebbe solo una traduzione atecnica e confusa della “società aperta”.

A tal proposito, peraltro, giacché spesso si sentono ancora invocare il pluralismo e la democrazia pluralista quali puntelli del proprio ragionamento giuridico, mi piace ricordare alcune righe di Norberto Bobbio e di Vezio Crisafulli su questi temi. Bobbio, infatti, paventava di riscoprirsi d’un tratto nelle “sabbie mobili” del pluralismo: «dico “sabbie mobili” perché chi si è avventurato (…) nella disputa intorno al pluralismo mi faceva spesso l’effetto di uno che ad ogni sforzo di uscir fuori con la testa sprofondava sempre più coi piedi». Né Crisafulli – dal canto suo – risultava meno tranchant quando ammoniva così: «diffido delle parole di moda, che, senza essere nuove, vogliono apparire tali; che, un tempo, avevano circolazione limitata e significato abbastanza preciso e d’un tratto corrono sulla bocca di tutti, per alludere a cose diverse e comunque non chiaramente determinate. Un tempo, giuristi e storici delle istituzioni politiche sapevano press’a poco che pluralistica era la società feudale, alla quale si contrappose la rivoluzione liberale borghese, con la pretesa addirittura, in un primo momento, di disconoscere qualsiasi formazione sociale intermedia tra lo Stato e i cittadini. Adesso, invece, il pluralismo viene riscoperto come un elemento caratterizzante il nostro vigente ordinamento costituzionale e come modello di società politicamente avanzata. La nostra democrazia è pluralistica, si afferma; siamo tutti pluralisti, dice, non senza una sottile ironia, se non m’inganno, Norberto Bobbio. Ma che cosa sia questa democrazia pluralistica che da ogni parte si assume di voler difendere, preservare, e magari anzi potenziare, ben pochi lo sanno (a tutto concedere)». 

E lo stesso “pasticciaccio” parrebbe oggi spesso valere per la traduzione “tecnico-giuridica” di quest’ultima, della democrazia pluralista, nel c.d. Stato costituzionale, che se da una parte indica banalmente l’introduzione di una Costituzione nell’impianto dello Stato di diritto, dall’altra spesso viene pericolosamente invocata a nebulosa giustificazione d’una necessaria giurisdizionalizzazione e/o eticizzazione dell’ordinamento. Per non parlare poi della famigerata “azione integrativa” delle costituzioni, le quali proprio in ragione di ciò sarebbero necessariamente da intendere “per principi” o addirittura “per valori”, affidandone il bilanciamento, manco a dirlo, alla Corte Costituzionale (con buona pace del Legislatore e di quel che rappresenta in termini di democrazia). 

Manco a dirlo, siamo davanti a cose enormi, che dovrebbero essere affrontate – ed è questo il cuore del mio libro –, con specifici e stretti passaggi argomentativi, coerenti e serrati, visto che saremmo sempre di fronte ad un autentico “salto” di paradigma metodologico: discorso questo che – se non altro – mette in campo più che sensibili interrogativi. Saremmo forse arrivati qui a seguito di un percorso falsificazionista popperiano? Il famoso nobile “criticismo”, il quale comunque richiede dimostrazioni “mica da ridere” per giustificare razionalmente tali mutamenti di paradigma… O invece saremmo di fronte ad una rivoluzione scientifica come “salto nella fede” descritta in certi passaggi dell’opera di Kuhn? O viceversa siamo direttamente inzuppati nel “tutto fa brodo”, quel anything goes figlio del relativismo epistemologico estremo teorizzato da Feyerabend all’ombra degli olmi del New Haven? Francamente a me sembra che ci si stia tuffando (a peso morto) proprio in quest’ultima ipotesi e in tutto questo il senso del mio lavoro è stato proprio quello di ritrovare un minimo di ordine in mezzo a tutto questo brodo, armandomi – come dico nel prologo – tanto della pazienza di Giobbe, quanto della fibra di Tyson. 

Purtroppo sono riuscito ad occuparmi solamente di un pezzo del percorso che mi ero proposto di svolgere. Infatti, atteso che ho dovuto attardarmi non poco – come già più volte ho ripetuto in queste righe – proprio per colmare quei “vuoti” lasciati da altri nel loro percorso, costringendomi così a fabbricare di mia mano le lenti per poter leggere autonomamente (e in modo utilmente critico) le relative fenomenologie, mi è mancato il tempo per articolare quell’ulteriore braccio di mare che avrei volentieri dedicato a una severa verticalizzazione su diritti e valori, ragionevolezza, ruolo e natura della Corte costituzionale. Giacché tuttavia i desideri si devono talvolta confrontare con la realtà, per essere onesto quando sono uscito dalla traversata di questo deserto del Gobi mi sono sentito come Forrest Gump dopo il suo Coast to Coast: “un po’ stanchino”. Non so se a questo punto avrò la forza di ributtarmi in acqua, ma certo ho un’ampia famiglia di allievi (giovani e “performanti”) che potranno, insieme a chiunque altro vorrà, procedere su questo solco. 

Quel che conclusivamente mi auguro è semmai una cosa sola: che con questa faticosa ricostruzione di tutti i nessi culturali, che spero di essere riuscito a proporre, si possa avviare una discussione finalmente completa e seria sul tema e magari – perché no? – anche cominciare a prendere qualche distanza da tutta una serie di miti, mode e luoghi comuni che ci accompagnano da tanto, tanto tempo e per quanto mi riguarda, addirittura troppo.
Aljs Vignudelli