Aljs Vignudelli
SERGIO FOIS, MAESTRO DI DIRITTO COSTITUZIONALE
Per varie ragioni ho cercato di ritardare il più
possibile l’occasione per un primo ricordo dell’amico e maestro Sergio
Fois e la commozione che provo anche adesso nel procedere in questa
direzione testimonia, evidentemente, come non abbia ancóra elaborato
compiutamente il distacco da un sodalizio durato più di sei lustri.
Trent’anni di vivace e coinvolta collaborazione, pur non scevri di
problemi e turbolenze viste le caratteristiche tipiche dell’uomo cui –
tuttavia – mi hanno sempre legato (e tuttora mi legano) vincoli che
vanno ben al di là delle questioni umorali. Un insieme di
caratteristiche, quelle di Sergio, forse per certi versi riconducibili(e
per così dire “intrinseche”) alla sua amata terra, la Sardegna, che
tanto ricorreva nelle sue parole e che tanto assomigliava al suo essere,
come poi ho avuto modo di realizzare (trovandone conferma) nel mio
periodo di docenza presso la non dimenticata Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Sassari, nella quale sono rimasto durante
(e pure oltre) il mio straordinariato. E non a caso, infatti, è proprio
la Sardegna a essere evocata con forza in molte delle sue poesie, che
costituiscono un altro dei modi in cui dava espressione a quella sua
inquietudine sottile così moderna e a una sorta d’introversione empatica
nel suo rapporto con la realtà: una delle sue citazioni più ricorrenti –
tra le tante – andava all’Homme révolté d’Albert Camus.
Quest’irrequietezza esistenziale finiva per trasmettersi in ogni suo atto e in ogni suo rapporto, a partire da quelli più strettamente personali con amici, colleghi, allievi, collaboratori e persino familiari, distillando una proiezione oltremodo “complessa” e fin da sùbito straordinariamente rigorosa verso tutte le persone a lui vicine. Anzi, forse tanto più esigente quanto più le persone gli erano vicine, nei fatti e nel cuore, giacché in fondo non faceva che applicare anche a loro quell’inflessibile mancanza d’indulgenza che riteneva doveroso imporre a se stesso quale autentico (e forse il più alto) simbolo della dignità raggiungibile dall’Uomo. Il quale ultimo, secondo Sergio Fois, si doveva guadagnare con fatica il proprio posto nell’Universo, rispondendo personalmente e consapevolmente così del proprio essere come del proprio fare, e non v’è dubbio che il percorso scelto da Sergio per (tentar di) raggiungere questo risultato sia sempre stato quello dell’impegno (a tratti frenetico, quasi da élan vital) ) nella penetrazione della realtà. Una realtà che, non a caso, riusciva a capire (e a spiegare) con molta maggiore facilità di quanto non fosse poi incline ad accettare (nel senso di giustificare).
In particolare, in seno ai rapporti personali ha sempre tenuto a fissare e a difendere il limite dettato dal rispetto, mantenendo scrupolosamente separate la sfera della contiguità e dell’intimità da quella della vita privata intesa in senso proprio (che lui chiamava il cerchio magico), ritenendo che la prima non dovesse mai esistere a danno dell’altra. Atteggiamento, questo, portato avanti con ostinazione e che gli costò rinunce anche dolorose in svariate circostanze, nelle quali tuttavia preferì sempre il rispetto di sé a situazioni “pasticciate” di compromesso (che per lui sarebbero state intellettualmente inaccettabili). Di qui anche la sua teoria, per certi versi velata pure d’un narcisismo a tratti macabro, del “diritto all’infelicità” (mutuato dal Grande inquisitore di Dostoevskij): il frutto forse più maturo e tormentato di quel “pessimismo della ragione” al fondo del mal sottile che ne ha accompagnato – non senza strascichi – l’esistenza intera, sebbene non gli fosse estraneo, nel contempo, pure un certo gusto per la vita nelle sue molteplici dimensioni, dalla musica di Mozart, all’estetica della Venere di Milo e all’amore per il mare sentito (anche e soprattutto) come valore della memoria. Non a caso si riconosceva tanto in una foto di lui giovane posato su uno scoglio a scrutare l’orizzonte marino con uno sguardo che pare quasi assorto a sussumere la metafisica d’un istante nel fatale tentativo di rincorrere ovunque quel suo spasmodico (fors’anche dannato) bisogno di senso.
Dette inclinazioni traspaiono poi con evidenza pure nel Fois che s’interroga sulle questioni del diritto, tentando d’organizzale in una prospettiva metodologica tesa a far luce sulle complessità che si celano dietro il velo (talora gaglioffo) delle apparenze. Il tutto non senza costi, poiché l’obiettivo di tenere la mente aperta su molte finestre comporta una tensione emozionale soggetta a continue sollecitazioni, specialmente in virtù del conflitto che fatalmente si viene a originare fra lo studioso che procede strenuamente alla difesa d’una certa ortodossia metodologica e un modello dominante che invece guarda altrove (anche se frequentemente non si comprende neppure dove, e perché). Con effetti che non coinvolgono solo il versante dell’impegno scientifico, ma spesso – di nuovo – travolgono fatalmente anche (e soprattutto) la vita personale, sebbene le estreme conseguenze (a cavaliere tra solitudine ed isolamento) di quest’onestà intellettuale non ne abbiano mai compromesso la lucidità tanto della sfera scientifica quanto di quella affettiva ed umana, come dimostra – fra l’altro – la perdurante riconoscenza verso suoi maestri (di cui tuttavia non trascurava di ricordare il carattere a loro volta piuttosto “complicato”): Carlo Esposito e Costantino Mortati, ma particolarmente Giuseppe Guarino, al quale attribuiva il merito di averne scoperto le qualità portandolo con sé a Roma, come ha ricordato nel 2010 lo stesso Guarino alla presentazione presso La Sapienza della raccolta di scritti “La crisi della legalità”, richiamando la dedica con cui Sergio gli donò il suo primo libello di versi.
Dunque, siamo di fronte a una figura assai complessa ma al tempo stesso cristallina, essendo la sua opera – a partire dalla scelta dei temi – profondamente autoreferenziale (ma mai ripiegata in se stessa), nel senso che la posizione filosofico culturale è qui del tutto coincidente con quella scientifica, la quale in nessun modo viene orientata (o risulta orientabile) a fini meramente pratici (e comunque non risulta mai intrisa di “chiusure” od “ostilità” preconcette). Fois non voleva essere il tipico giurista engagé che si cala nel flusso della storia per utilizzare e piegare il diritto alla soluzione dei problemi praticiposti dal “gioco delle cose”, giacché, aderendo ad una prospettiva democratica, muoveva ogni ragionamento nell’àmbito d’una concezione bobbiana tanto della c.d. democrazia procedimentale, quanto dello Stato di diritto, inteso quale presupposto non solo storico, ma altresì giuridico del vigente Stato democratico (costituzionale) di diritto.
Più specificamente, Fois non ha mai cessato di professare un acceso individualismo di stampo liberal-democratico, intendendo il diritto costituzionale principalmente quale strumento di limitazione del potere e di tutela delle minoranze. Discorso, questo, al quale si ricollega la strenua difesa d’un approccio “formale” al fenomeno giuridico, in contrapposizione con ogni teoria concettualmente “sostanziale”, con ogni dottrina dell’effettività ed in favore della possibilità di verificare il procedimento logico che dovrebbe accompagnare la speculazione del giurista. Il che, sotto un profilo metodologico, gl’induceva un perdurante fastidio per certe entusiastiche nouvelles vagues dedite per lo più all’easy listening scientifico, sempre più lontane dalle “buone regole”, con disciplinari incerti e con salti audaci che, ibridando teoria e prassi nonché confondendo (più o meno scientemente) piano descrittivo e piano prescrittivo, s’astenessero regolarmente dal fare ciò che per lui era basilare, ovvero compiere nella scalata argomentativa – quasi more geometrico e senz’omissioni – tutti quanti gli scalini della torre, fitti fitti come la trama d’un grande tappeto di Herat. «Bisogna sfogliare il carciofo una foglia alla volta», soleva ripetere ad ogni piè sospinto, a testimonianza d’un evidente disagio verso bellurie concettuali e argomentazioni farfuglianti – per così dire,faibles – , con una spiccata avversione nei riguardi della boria dei dotti e un’ostilità palese verso le fictae substantiae. Va ricordato, da ultimo, un voltairiano spiccato dispitto – quasi da punto di vista manicheo – che Sergio provava nei confronti dei presunti (o pretesi) profeti, spendendo ogni anelito – per dirla con Odifreddi – per «la costante ripulitura del linguaggio dalla ruggine generata dalla metafisica».
Ciò non significa che fosse uno studioso pedante: tutt’altro. Anzi, una delle sue più intriganti qualità sotto il profilo scientifico, almeno a mio avviso, risiedeva nella sua grande capacità di coniugare chiarezza e sintesi, al punto che molto spesso il suo pensiero risultava quasi “sincopato” in obiter dicta:l’impressione poteva essere quella d’un andamento meramente assertivo, mentre invece era il frutto d’una ben precisa (ed argomentata) dottrina del diritto, e segnatamente della Costituzione. Esemplare, in questo senso, un suo intervento sul finire degli anni Novanta del secolo appena trascorso durante l’assemblea annuale dei costituzionalisti italiani in cui si dibatteva della crisi dello stato. L’intervento di Sergio Fois – come d’abitudine solo apparentemente circoscritto – verteva specialmente sul concetto di sovranità, e in una riga (sic!) riusciva a ricostruire in modo esemplare e coerente il rapporto concettuale, dal punto di vista giuridico, tra la sovranità (limitata) del popolo e quella della Costituzione, sulla base del solo apparentemente banale rilievo che il primo è un soggetto e la seconda un atto. Beninteso: non era né un’intuizione, né una folgorazione, ma il prodotto di quella sua peculiare capacità di scarnificare la sintassi della lingua al servizio d’un pensiero progressivamente raffinato (e per così dire rarefatto) sino a trattenere solo l’essenziale. Il tutto, cercando sempre di tenersi il più possibile audessus de la mêlée.
C’era infatti in Fois l’esigenza di (e la pulsione verso) un pensiero razionale di matrice illuministica e kantiana che, unita a una speculare e decisa avversione rispetto ad approcci “hegeliani” alla teoria del diritto, in una sorta di clash of universalism, conduceva ad un preciso spazio topologico. E si trattava d’un illuminismo talora condotto sino ai confini del giusnaturalismo della ragione, com’emerge in termini abbastanza netti anche dalla sua posizione sulle precondizioni del sistema democratico, identificate – sempre in consonanza con Bobbio (in un comun sentire), col quale condivideva un rapporto di reciproca considerazione – in quel nucleo fondamentale di libertà (a cominciare da quella di manifestazione del pensiero), molte delle quali sono oggi ricomprese nel c.d. nòcciolo duro della Carta costituzionale (inteso quale limite non solo del processo d’integrazione comunitaria, ma dello stesso procedimento di revisione costituzionale). Più nello specifico, tale impostazione viene ad esempio impiegata con riferimento alla problematica dei “nuovi diritti” di libertà, rispetto ai quali Fois non sottaceva il pericolo che potessero implicare valori antagonisti o più o meno confliggenti (a vario titolo e con varia intensità) con quelli incorporati nei diritti di libertà tradizionali, revocando in dubbio, di fronte alla disinvoltura di chi ne proponeva l’introduzione addirittura per via giurisdizionale, che essi potessero essere concepiti, riconosciuti e garantiti negli stessi termini dei tradizionali diritti di libertà. Quei diritti di libertà che, «di per se stessi, non fa[rebbero] parte delle – e non sono assorbiti nelle – cosiddette “regole del gioco” democratico: ne s[arebbero], invece, il “presupposto” necessario, rappresent[erebbero] le “regole preliminari”, le “condizioni preliminari” che permettono lo svolgimento del “gioco”, s[arebbero] in definitiva “precondizioni per il funzionamento” del “gioco”»: das ist des Pudels Kern!
Ed in senso analogo possono leggersi le lucide pagine nelle quali Sergio Fois analizza e valuta il fenomeno sindacale senz’alcun pre-giudizio o pre-concezione che non fosse la suddetta visione della democrazia e del diritto; Sindacati e sistema politico è in tale quadro un libro ancor più significativo, sol che si consideri il periodo in cui fu scritto, quando non era scontato, nemmeno in seno all’Accademia, parlare di certi temi con certi toni, ed era ben più facile e “raccomandabile” volgere comodamente lo sguardo altrove, in attesa che “passasse ‘a nuttata”. Sergio Fois, no. Coerente in maniera radicale, oggi quelle pagine – manifesto d’un liberalismo che si frappone anche tra individuo e poteri sociali (fintamente?) “amici” – assumono una colorazione ed un significato attualissimi, inaspettati solo per coloro che non conoscevano il personaggio, disposto sempre a pagare il prezzo per le proprie idee pur di non recederne, nemmeno per un istante. Il che spiega perché apprezzasse tanto – pur non nutrendo di sicuro alcuna propensione al martirio – l’intransigenza e l’indipendenza di pensiero di un Giordano Bruno.
Come ho già detto, la chiave di volta dell’uomo stava appunto in questo suo fare del razionalismo applicato nello studio del diritto anche una cifra di riferimento nella sfera privata, al fine di plasmare la propria persona non secondo le sue naturali inclinazioni, ma cercando – giorno per giorno – di essere il Fois che avrebbe dovuto essere, piuttosto che quello che lui, magari, avrebbe voluto: suo figlio Mario ricorda infatti come gli sarebbe piaciuto aver perseguito la carriera di direttore d’orchestra; il ruolo che si era scelto, del resto, non gli consentiva un simile lusso, e lui non ha mai esitato (più o meno tormentatamente, per la verità) ad adempiere a quello che riteneva essere il suo dovere pubblico. Ricordo che talora mi rievocava il giorno in cui – colpito da un gravissimo lutto familiare – si recò, con ancóra indosso i vestiti del funerale, alla Camera dei Deputati per riferire in commissione rispetto ad un’audizione da tempo fissata in materia di riforme universitarie, nei panni di vice-segretario dell’Uspur: credo che l’episodio descriva – anche proprio nella sua apparente “esageratezza” – ciò che voglio dire meglio di tante parole.
Un riflesso di quest’anelito al rigore estremo e alla “compiutezza” (tanto nella vita, quanto nella scienza che l’occupava) fu il rimpianto di non aver licenziato un proprio manuale di diritto costituzionale: «saprei bene come impostarlo e come condurlo», diceva, «ma le vicende della vita hanno remato contro, ed ogni volta che mi ci sono messo dietro qualcosa mi ha deviato in direzione contraria ed è ormai troppo tardi per assumere un così gravoso impegno con me stesso». Queste le sue parole intorno ai sessant’anni. E, davanti ai miei ripetuti inviti di stenderlo insieme, mi rispondeva che se gli astri mi fossero stati propizî avrei forse potuto essere io a tentar di presidiare i confini d’una posizione intellettualmente onesta, all’interno della quale lo scienziato sapesse esporre lealmente, nei rapporti coi discenti, la propria visione senza però occultare l’esistenza di altre, come invece da tempo veniva (e viene) praticato quasi fosse uno sport nazionale.
Da parte mia, pur con tutti i miei limiti, ho sempre cercato di non tradire queste indicazioni oneste ed essenziali. E quando gli ho sottoposto il mio lavoro fin dalle sue prime scarne versioni e poi via via con stesure più complete e meditate, nonostante la sua proverbiale avarizia di parole (per lui «non è poco» era praticamente la suprema lode), emergeva – insieme al vecchio cruccio di non avere potuto attendere in prima persona all’opera, pur ritenendosene (a buon diritto) capace – anche la gioia (quella un poco “fiera” d’una paternità indiretta, ma non meno vera) che il succo del suo insegnamento non finisse disperso al vento, cosa che per me è ancor oggi motivo di sincero orgoglio e d’altrettanta sentita commozione.
Letta in questa prospettiva, la “dottrina di Sergio Fois” (per riprendere il titolo dell’incontro, con cui chi è intervenuto ha inteso onorarlo) si manifesta in tutta la sua intima coerenza, per cui l’uomo-Sergio ed il giurista-Fois formano un tutt’uno, coi suoi (numerosi e grandi) pregi ed i suoi (non meno grandi) difetti: uno dei più importanti giuristi italiani del suo tempo, certamente tra i più eccentrici (nel senso letterale di “lontano dal centro”), mercé proprio quella sua inclinazione a marciare “in direzione ostinata e contraria” che costituisce, forse, il suo lascito più prezioso, sia alla comunità scientifica, sia a chi, anche per un breve spazio di tempo, l’ha incontrato e gli ha voluto bene.
Fois era il mio Maestro, ma ha lasciato a tutti noi un pensiero vivo ed attuale; ci parla ogni volta che apriamo le sue pagine, e nella sua opera troviamo, se non sempre le risposte che vorremmo, certamente ispirazione.
Sergio era mio Amico. E mi manca tanto.
Quest’irrequietezza esistenziale finiva per trasmettersi in ogni suo atto e in ogni suo rapporto, a partire da quelli più strettamente personali con amici, colleghi, allievi, collaboratori e persino familiari, distillando una proiezione oltremodo “complessa” e fin da sùbito straordinariamente rigorosa verso tutte le persone a lui vicine. Anzi, forse tanto più esigente quanto più le persone gli erano vicine, nei fatti e nel cuore, giacché in fondo non faceva che applicare anche a loro quell’inflessibile mancanza d’indulgenza che riteneva doveroso imporre a se stesso quale autentico (e forse il più alto) simbolo della dignità raggiungibile dall’Uomo. Il quale ultimo, secondo Sergio Fois, si doveva guadagnare con fatica il proprio posto nell’Universo, rispondendo personalmente e consapevolmente così del proprio essere come del proprio fare, e non v’è dubbio che il percorso scelto da Sergio per (tentar di) raggiungere questo risultato sia sempre stato quello dell’impegno (a tratti frenetico, quasi da élan vital) ) nella penetrazione della realtà. Una realtà che, non a caso, riusciva a capire (e a spiegare) con molta maggiore facilità di quanto non fosse poi incline ad accettare (nel senso di giustificare).
In particolare, in seno ai rapporti personali ha sempre tenuto a fissare e a difendere il limite dettato dal rispetto, mantenendo scrupolosamente separate la sfera della contiguità e dell’intimità da quella della vita privata intesa in senso proprio (che lui chiamava il cerchio magico), ritenendo che la prima non dovesse mai esistere a danno dell’altra. Atteggiamento, questo, portato avanti con ostinazione e che gli costò rinunce anche dolorose in svariate circostanze, nelle quali tuttavia preferì sempre il rispetto di sé a situazioni “pasticciate” di compromesso (che per lui sarebbero state intellettualmente inaccettabili). Di qui anche la sua teoria, per certi versi velata pure d’un narcisismo a tratti macabro, del “diritto all’infelicità” (mutuato dal Grande inquisitore di Dostoevskij): il frutto forse più maturo e tormentato di quel “pessimismo della ragione” al fondo del mal sottile che ne ha accompagnato – non senza strascichi – l’esistenza intera, sebbene non gli fosse estraneo, nel contempo, pure un certo gusto per la vita nelle sue molteplici dimensioni, dalla musica di Mozart, all’estetica della Venere di Milo e all’amore per il mare sentito (anche e soprattutto) come valore della memoria. Non a caso si riconosceva tanto in una foto di lui giovane posato su uno scoglio a scrutare l’orizzonte marino con uno sguardo che pare quasi assorto a sussumere la metafisica d’un istante nel fatale tentativo di rincorrere ovunque quel suo spasmodico (fors’anche dannato) bisogno di senso.
Dette inclinazioni traspaiono poi con evidenza pure nel Fois che s’interroga sulle questioni del diritto, tentando d’organizzale in una prospettiva metodologica tesa a far luce sulle complessità che si celano dietro il velo (talora gaglioffo) delle apparenze. Il tutto non senza costi, poiché l’obiettivo di tenere la mente aperta su molte finestre comporta una tensione emozionale soggetta a continue sollecitazioni, specialmente in virtù del conflitto che fatalmente si viene a originare fra lo studioso che procede strenuamente alla difesa d’una certa ortodossia metodologica e un modello dominante che invece guarda altrove (anche se frequentemente non si comprende neppure dove, e perché). Con effetti che non coinvolgono solo il versante dell’impegno scientifico, ma spesso – di nuovo – travolgono fatalmente anche (e soprattutto) la vita personale, sebbene le estreme conseguenze (a cavaliere tra solitudine ed isolamento) di quest’onestà intellettuale non ne abbiano mai compromesso la lucidità tanto della sfera scientifica quanto di quella affettiva ed umana, come dimostra – fra l’altro – la perdurante riconoscenza verso suoi maestri (di cui tuttavia non trascurava di ricordare il carattere a loro volta piuttosto “complicato”): Carlo Esposito e Costantino Mortati, ma particolarmente Giuseppe Guarino, al quale attribuiva il merito di averne scoperto le qualità portandolo con sé a Roma, come ha ricordato nel 2010 lo stesso Guarino alla presentazione presso La Sapienza della raccolta di scritti “La crisi della legalità”, richiamando la dedica con cui Sergio gli donò il suo primo libello di versi.
Dunque, siamo di fronte a una figura assai complessa ma al tempo stesso cristallina, essendo la sua opera – a partire dalla scelta dei temi – profondamente autoreferenziale (ma mai ripiegata in se stessa), nel senso che la posizione filosofico culturale è qui del tutto coincidente con quella scientifica, la quale in nessun modo viene orientata (o risulta orientabile) a fini meramente pratici (e comunque non risulta mai intrisa di “chiusure” od “ostilità” preconcette). Fois non voleva essere il tipico giurista engagé che si cala nel flusso della storia per utilizzare e piegare il diritto alla soluzione dei problemi praticiposti dal “gioco delle cose”, giacché, aderendo ad una prospettiva democratica, muoveva ogni ragionamento nell’àmbito d’una concezione bobbiana tanto della c.d. democrazia procedimentale, quanto dello Stato di diritto, inteso quale presupposto non solo storico, ma altresì giuridico del vigente Stato democratico (costituzionale) di diritto.
Più specificamente, Fois non ha mai cessato di professare un acceso individualismo di stampo liberal-democratico, intendendo il diritto costituzionale principalmente quale strumento di limitazione del potere e di tutela delle minoranze. Discorso, questo, al quale si ricollega la strenua difesa d’un approccio “formale” al fenomeno giuridico, in contrapposizione con ogni teoria concettualmente “sostanziale”, con ogni dottrina dell’effettività ed in favore della possibilità di verificare il procedimento logico che dovrebbe accompagnare la speculazione del giurista. Il che, sotto un profilo metodologico, gl’induceva un perdurante fastidio per certe entusiastiche nouvelles vagues dedite per lo più all’easy listening scientifico, sempre più lontane dalle “buone regole”, con disciplinari incerti e con salti audaci che, ibridando teoria e prassi nonché confondendo (più o meno scientemente) piano descrittivo e piano prescrittivo, s’astenessero regolarmente dal fare ciò che per lui era basilare, ovvero compiere nella scalata argomentativa – quasi more geometrico e senz’omissioni – tutti quanti gli scalini della torre, fitti fitti come la trama d’un grande tappeto di Herat. «Bisogna sfogliare il carciofo una foglia alla volta», soleva ripetere ad ogni piè sospinto, a testimonianza d’un evidente disagio verso bellurie concettuali e argomentazioni farfuglianti – per così dire,faibles – , con una spiccata avversione nei riguardi della boria dei dotti e un’ostilità palese verso le fictae substantiae. Va ricordato, da ultimo, un voltairiano spiccato dispitto – quasi da punto di vista manicheo – che Sergio provava nei confronti dei presunti (o pretesi) profeti, spendendo ogni anelito – per dirla con Odifreddi – per «la costante ripulitura del linguaggio dalla ruggine generata dalla metafisica».
Ciò non significa che fosse uno studioso pedante: tutt’altro. Anzi, una delle sue più intriganti qualità sotto il profilo scientifico, almeno a mio avviso, risiedeva nella sua grande capacità di coniugare chiarezza e sintesi, al punto che molto spesso il suo pensiero risultava quasi “sincopato” in obiter dicta:l’impressione poteva essere quella d’un andamento meramente assertivo, mentre invece era il frutto d’una ben precisa (ed argomentata) dottrina del diritto, e segnatamente della Costituzione. Esemplare, in questo senso, un suo intervento sul finire degli anni Novanta del secolo appena trascorso durante l’assemblea annuale dei costituzionalisti italiani in cui si dibatteva della crisi dello stato. L’intervento di Sergio Fois – come d’abitudine solo apparentemente circoscritto – verteva specialmente sul concetto di sovranità, e in una riga (sic!) riusciva a ricostruire in modo esemplare e coerente il rapporto concettuale, dal punto di vista giuridico, tra la sovranità (limitata) del popolo e quella della Costituzione, sulla base del solo apparentemente banale rilievo che il primo è un soggetto e la seconda un atto. Beninteso: non era né un’intuizione, né una folgorazione, ma il prodotto di quella sua peculiare capacità di scarnificare la sintassi della lingua al servizio d’un pensiero progressivamente raffinato (e per così dire rarefatto) sino a trattenere solo l’essenziale. Il tutto, cercando sempre di tenersi il più possibile audessus de la mêlée.
C’era infatti in Fois l’esigenza di (e la pulsione verso) un pensiero razionale di matrice illuministica e kantiana che, unita a una speculare e decisa avversione rispetto ad approcci “hegeliani” alla teoria del diritto, in una sorta di clash of universalism, conduceva ad un preciso spazio topologico. E si trattava d’un illuminismo talora condotto sino ai confini del giusnaturalismo della ragione, com’emerge in termini abbastanza netti anche dalla sua posizione sulle precondizioni del sistema democratico, identificate – sempre in consonanza con Bobbio (in un comun sentire), col quale condivideva un rapporto di reciproca considerazione – in quel nucleo fondamentale di libertà (a cominciare da quella di manifestazione del pensiero), molte delle quali sono oggi ricomprese nel c.d. nòcciolo duro della Carta costituzionale (inteso quale limite non solo del processo d’integrazione comunitaria, ma dello stesso procedimento di revisione costituzionale). Più nello specifico, tale impostazione viene ad esempio impiegata con riferimento alla problematica dei “nuovi diritti” di libertà, rispetto ai quali Fois non sottaceva il pericolo che potessero implicare valori antagonisti o più o meno confliggenti (a vario titolo e con varia intensità) con quelli incorporati nei diritti di libertà tradizionali, revocando in dubbio, di fronte alla disinvoltura di chi ne proponeva l’introduzione addirittura per via giurisdizionale, che essi potessero essere concepiti, riconosciuti e garantiti negli stessi termini dei tradizionali diritti di libertà. Quei diritti di libertà che, «di per se stessi, non fa[rebbero] parte delle – e non sono assorbiti nelle – cosiddette “regole del gioco” democratico: ne s[arebbero], invece, il “presupposto” necessario, rappresent[erebbero] le “regole preliminari”, le “condizioni preliminari” che permettono lo svolgimento del “gioco”, s[arebbero] in definitiva “precondizioni per il funzionamento” del “gioco”»: das ist des Pudels Kern!
Ed in senso analogo possono leggersi le lucide pagine nelle quali Sergio Fois analizza e valuta il fenomeno sindacale senz’alcun pre-giudizio o pre-concezione che non fosse la suddetta visione della democrazia e del diritto; Sindacati e sistema politico è in tale quadro un libro ancor più significativo, sol che si consideri il periodo in cui fu scritto, quando non era scontato, nemmeno in seno all’Accademia, parlare di certi temi con certi toni, ed era ben più facile e “raccomandabile” volgere comodamente lo sguardo altrove, in attesa che “passasse ‘a nuttata”. Sergio Fois, no. Coerente in maniera radicale, oggi quelle pagine – manifesto d’un liberalismo che si frappone anche tra individuo e poteri sociali (fintamente?) “amici” – assumono una colorazione ed un significato attualissimi, inaspettati solo per coloro che non conoscevano il personaggio, disposto sempre a pagare il prezzo per le proprie idee pur di non recederne, nemmeno per un istante. Il che spiega perché apprezzasse tanto – pur non nutrendo di sicuro alcuna propensione al martirio – l’intransigenza e l’indipendenza di pensiero di un Giordano Bruno.
Come ho già detto, la chiave di volta dell’uomo stava appunto in questo suo fare del razionalismo applicato nello studio del diritto anche una cifra di riferimento nella sfera privata, al fine di plasmare la propria persona non secondo le sue naturali inclinazioni, ma cercando – giorno per giorno – di essere il Fois che avrebbe dovuto essere, piuttosto che quello che lui, magari, avrebbe voluto: suo figlio Mario ricorda infatti come gli sarebbe piaciuto aver perseguito la carriera di direttore d’orchestra; il ruolo che si era scelto, del resto, non gli consentiva un simile lusso, e lui non ha mai esitato (più o meno tormentatamente, per la verità) ad adempiere a quello che riteneva essere il suo dovere pubblico. Ricordo che talora mi rievocava il giorno in cui – colpito da un gravissimo lutto familiare – si recò, con ancóra indosso i vestiti del funerale, alla Camera dei Deputati per riferire in commissione rispetto ad un’audizione da tempo fissata in materia di riforme universitarie, nei panni di vice-segretario dell’Uspur: credo che l’episodio descriva – anche proprio nella sua apparente “esageratezza” – ciò che voglio dire meglio di tante parole.
Un riflesso di quest’anelito al rigore estremo e alla “compiutezza” (tanto nella vita, quanto nella scienza che l’occupava) fu il rimpianto di non aver licenziato un proprio manuale di diritto costituzionale: «saprei bene come impostarlo e come condurlo», diceva, «ma le vicende della vita hanno remato contro, ed ogni volta che mi ci sono messo dietro qualcosa mi ha deviato in direzione contraria ed è ormai troppo tardi per assumere un così gravoso impegno con me stesso». Queste le sue parole intorno ai sessant’anni. E, davanti ai miei ripetuti inviti di stenderlo insieme, mi rispondeva che se gli astri mi fossero stati propizî avrei forse potuto essere io a tentar di presidiare i confini d’una posizione intellettualmente onesta, all’interno della quale lo scienziato sapesse esporre lealmente, nei rapporti coi discenti, la propria visione senza però occultare l’esistenza di altre, come invece da tempo veniva (e viene) praticato quasi fosse uno sport nazionale.
Da parte mia, pur con tutti i miei limiti, ho sempre cercato di non tradire queste indicazioni oneste ed essenziali. E quando gli ho sottoposto il mio lavoro fin dalle sue prime scarne versioni e poi via via con stesure più complete e meditate, nonostante la sua proverbiale avarizia di parole (per lui «non è poco» era praticamente la suprema lode), emergeva – insieme al vecchio cruccio di non avere potuto attendere in prima persona all’opera, pur ritenendosene (a buon diritto) capace – anche la gioia (quella un poco “fiera” d’una paternità indiretta, ma non meno vera) che il succo del suo insegnamento non finisse disperso al vento, cosa che per me è ancor oggi motivo di sincero orgoglio e d’altrettanta sentita commozione.
Letta in questa prospettiva, la “dottrina di Sergio Fois” (per riprendere il titolo dell’incontro, con cui chi è intervenuto ha inteso onorarlo) si manifesta in tutta la sua intima coerenza, per cui l’uomo-Sergio ed il giurista-Fois formano un tutt’uno, coi suoi (numerosi e grandi) pregi ed i suoi (non meno grandi) difetti: uno dei più importanti giuristi italiani del suo tempo, certamente tra i più eccentrici (nel senso letterale di “lontano dal centro”), mercé proprio quella sua inclinazione a marciare “in direzione ostinata e contraria” che costituisce, forse, il suo lascito più prezioso, sia alla comunità scientifica, sia a chi, anche per un breve spazio di tempo, l’ha incontrato e gli ha voluto bene.
Fois era il mio Maestro, ma ha lasciato a tutti noi un pensiero vivo ed attuale; ci parla ogni volta che apriamo le sue pagine, e nella sua opera troviamo, se non sempre le risposte che vorremmo, certamente ispirazione.
Sergio era mio Amico. E mi manca tanto.
Aljs Vignudelli