Orizzonti del Credito

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Giuseppe Morbidelli


Giuseppe Morbidelli
Giuseppe Morbidelli, Ordinario di diritto amministrativo nell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma

LE PARTECIPAZIONI DELLE IMPRESE NELLE BANCHE: PROFILI PUBBLICISTICI

Modena, 6 dicembre 2010

1) La separazione tra banca e industria per quanto considerata un “principio forte” e indiscusso, in realtà non era espressamente prevista dalla legge bancaria del 1936. Premesso che in questa sede la relazione banca-industria viene esaminata sotto il profilo della presenza di capitali industriali nelle banche (e non sotto quello della presenza di banche nel capitale delle società industriali), è indubbio che, di fatto, tale separazione era la naturale conseguenza della proprietà pubblica della stragrande maggioranza delle banche sotto il profilo della importanza e presenza sul mercato. E’ noto infatti che le banche di interesse nazionale erano di proprietà dello Stato tramite l’I.R.I., che le Casse di Risparmio erano enti pubblici, che erano pubblici Monte dei Paschi, I.M.I., i Banchi meridionali, Istituto San Paolo di Torino, B.N.L. etc. e che le altre grandi banche (es. Popolare Novara) erano cooperative. Sicché, di fatto, il problema non si poneva neppure. Quando però ebbe inizio la privatizzazione delle banche pubbliche e nel contempo l’introduzione, sotto la spinta della disciplina comunitaria, di un regime concorrenziale e del mutuo riconoscimento delle licenze bancarie nonché con il diffondersi dell’integrazione dei mercati finanziari, si venne a determinare l’esigenza di disciplinare la partecipazione delle imprese nelle banche onde impedire che l’acquisizione di partecipazioni al capitale delle banche, attuata da imprenditori non bancari o finanziari, potesse comprometterne la corretta valutazione del merito creditizio e con esso l’autonomia, l’imparzialità e la stabilità. Di qui una serie di provvedimenti, sia a livello di CICR, sia a livello legislativo, prima nella l. 10 ottobre 1990, n. 287 (“Norme per la tutela della concorrenza”), la quale vietava a tutti i soggetti che non svolgessero attività creditizia o finanziaria - ovverosia in primis i soggetti industriali - l’acquisto di partecipazioni al capitale di una banca superiori al 15%. Tale normativa è stata poi inserita nel testo unico bancario (TUB) che inoltre affidava a Banca d’Italia la funzione di negare o revocare l’autorizzazione all’acquisizione di partecipazioni in presenza di accordi, in qualsiasi forma conclusi, da cui derivasse durevolmente, in capo a soggetti che svolgessero in misura rilevante attività di impresa, una “rilevante concentrazione di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori o dei componenti del consiglio di sorveglianza della banca, tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa” (art. 19, co. 7). 

2) Senonchè la direttiva 2007/44/CE improntata alla armonizzazione dei mercati finanziari ha eliminato dalla disciplina delle partecipazioni al capitale delle banche i criteri di qualificazione soggettiva dei soci, in tal maniera facendo venir meno il limite del 15%, imposto dal TUB.
La materia è stata poi disciplinata in dettaglio dal d.lgs. n. 21/2010.
Il quale sottopone le acquisizioni rilevanti, da parte di qualunque soggetto, anche dunque da parte di imprese non bancarie né finanziarie, alla autorizzazione di Bankitalia: e la rilevanza si ha quando tale acquisizione determini la “possibilità di esercitare un’influenza notevole sulla banca stessa” o anche il mero raggiungimento di “una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10%, tenuto conto delle azioni e delle quote già possedute”.
L’autorizzazione è subordinata a che l’acquisizione non abbia effetti negativi sulla sana e prudente gestione della banca, nel senso che a tal fine deve valutasi la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione.
Tale valutazione viene svolta avvalendosi dei criteri della reputazione del potenziale acquirente, ivi compreso il possesso dei requisiti di onorabilità dei partecipanti, cui si aggiungono, secondo quanto specificato da Banca d’Italia, la correttezza nei comportamenti e nelle relazioni d’affari, nonché la competenza professionale; in pratica ciò che un tempo si chiamava il “credito personale del socio”; requisiti che devono essere posseduti anche da parte di coloro che, in esito all’acquisizione, sono chiamati a svolgere funzioni di amministrazione, direzione e controllo nella banca, la “solidità finanziaria del potenziale acquirente”, parametrata al tipo di attività esercitata e prevista nell’ente creditizio cui si riferisce il progetto di acquisizione, nonché la idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire l’esercizio efficace della vigilanza.

3) Si può dunque dire che la separazione non esiste più.
Il controllo infatti attiene ai requisiti soggettivi: di onorabilità, affidabilità e relative ricadute in punto di stabilità finanziaria.
Né rilevano le ragioni per cui l’imprenditore acquisisce capitale bancario: può avvenire infatti per visibilità o per investimento o per potere o per qualunque altra ragione.
Si richiedono solo requisiti finalizzati alla stabilità bancaria o volti comunque a rivelare ex ante l’assenza di rischi per la condizione immanente ed essenziale dell’attività bancaria, rappresentata della sana e prudente gestione.
Banca Italia può pertanto respingere la domanda di autorizzazione solo se ha fondati motivi di ritenere che i criteri non sono soddisfacenti o le informazioni fornite non sono complete.
Non possono essere imposte condizioni relative al livello della partecipazione da acquisire e le operazioni non possono essere validate sotto il profilo delle esigenze economiche del mercato.
E’ sicuro comunque che si tratta di requisiti che prescindono dalla natura del soggetto partecipante, il che di per sé fa cadere in radice la separazione o meglio i limiti al connubio tra banca ed industria.
Quello che va valutata è la “meritevolezza” e l’ “attitudine” all’attività bancaria dell’acquirente.


4) Senonchè tale “liberalizzazione” fa sorgere il problema dei conflitti di interesse.
Invero con riguardo agli assetti proprietari della banche e, seppure indirettamente anche ai rapporti banca-industria, sono di ausilio le previsioni relative alla vigilanza regolamentare contenute all’art. 53 T.U.B., in particolare quelle dei commi da 4 a 4-quater concernenti le attività di rischio nei confronti di coloro i quali possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza sulla gestione della banca nonché dei “soggetti collegati”.
Si tratta di disposizioni volte a dotare Banca d’Italia degli strumenti necessari per far fronte alle situazioni di conflitto di interessi e garantire la stabilità della banca, escludendo che particolari legami possano impedire una corretta valutazione del merito di credito e che alcuni soggetti, vicini ai centri decisionali della banca, possano compromettere l’obiettività delle valutazioni relative all’assunzione di attività di rischio.
Si tratta - va precisato - di una disciplina anteriore alla caduta del “muro” della separazione, ma è evidente che le disposizioni relative alle attività di rischio e ai conflitti di interesse riguardano tutti i “soggetti collegati” o comunque tutti coloro i quali possono esercitare un’influenza sulla banca e quindi anche i soggetti industriali.
L’art. 53, co. 4 TUB prevede appunto che “la Banca d’Italia, in conformità con le delibere del CICR, disciplina condizioni e limiti per l’assunzione, da parte delle banche, di attività di rischio nei confronti di coloro che possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza sulla gestione della banca o del gruppo bancario nonché dei soggetti a loro collegati.
Ove verifichi in concreto l’esistenza di situazione di conflitto di interessi, la Banca d’Italia può stabilire condizioni e limiti specifici per l’assunzione delle attività di rischio”.
Non solo: compete a Banca d’Italia, “in conformità con le deliberazioni del CICR, disciplinare i conflitti d’interessi tra le banche e i soggetti indicati nel comma 4, in relazione ad altre tipologie di rapporti di natura economica” (art. 53, co. 4-quater).
Spetta dunque a CICR e a Banca d’Italia fissare le condizioni e i limiti per l’assunzione da parte delle banche delle attività di rischio nei confronti di soggetti che possono esercitare un’influenza sulla gestione della banca nonché dei soggetti ad essa collegati e disciplinare i conflitti di interesse tra le banche e i soggetti collegati in relazione ad ogni tipologia di rapporti di natura economica, nonché imporre specifici limiti ove si verifichino in concreto situazioni di conflitto di interesse.
Sulla base di tale normativa, il CICR ha emanato la delibera 29 luglio 2008, n. 277 relativa alle attività di rischio dettando le nuove linee della regolamentazione attuativa del comma 4.
La delibera prevede che: “le attività di rischio complessive di un gruppo bancario o di una banca appartenente ad un gruppo bancario nei confronti di soggetti collegati devono essere inferiori ad una percentuale del patrimonio fissata dalla Banca d’Italia, comunque non superiore al 20%” (art. 2, co. 1).
Al di sotto di questa soglia Banca d’Italia può prevedere limiti differenziati a seconda del tipo di parte correlata.
Inoltre Banca d’Italia può “prevedere limiti all’assunzione di rischi di mercato derivanti da transazioni con parti correlate, anche fissando requisiti patrimoniali specifici” (art. 2, co. 4). L’art 3 prevede inoltre che “le attività di rischio e ogni altro rapporto di natura economica con soggetti collegati sono deliberati con modalità che garantiscono l’oggettività delle valutazioni”; che le relative deliberazioni siano “motivate adeguatamente con riguardo alla rispondenza delle condizioni economiche praticate a criteri di mercato”; infine che le banche “effettuino specifici controlli sull’andamento delle relazioni disciplinate dal presente articolo” (segue poi una puntuale indicazione della categoria di “soggetti collegati”).
Per quanto non contengano espliciti riferimenti alla partecipazione dei soggetti industriali nelle banche, vanno altresì menzionate le Disposizioni di vigilanza sul governo societario emanate da Banca d’Italia il 4 marzo 2008.
Esse infatti costituiscono un antidoto ai conflitti di interesse laddove disciplinano i compiti e i poteri degli organi sociali e la loro composizione (requisiti di professionalità, necessità di evitare conflitti di interesse etc).
Di particolare rilievo la previsione per cui nell’organo che svolge il compito di supervisione strategica siano presenti “componenti indipendenti che vigilino con autonomia di giudizio sulla gestione sociale, contribuendo ad assicurare che essa sia svolta nell’interesse della società e in modo coerente con gli obiettivi di sana e prudente gestione”.
Per le realtà aziendali di maggiori dimensioni o connotate da un’elevata complessità operativa, è necessaria inoltre la costituzione, all’interno dell’organo con funzione di supervisione strategica, di “comitati specializzati” (con compiti istruttori, consultivi, propositivi), composti anche da indipendenti, in quanto essa “agevola l’assunzione di decisioni soprattutto con riferimento ai settori di attività in cui più elevato è il rischio che si verifichino situazioni di conflitto di interessi”.

5) Dal quadro complessivo e anche dalle istruzioni di vigilanza da ultimo richiamate, si ha comunque che le tematiche del rapporto banca-industria o meglio i problemi che la presenza di capitale industriale nelle banche possono provocare all’interno delle stesse non hanno una soluzione preventiva tramite regole generali ed astratte.
La disciplina incontra infatti il limite della frastagliata realtà e dunque della ancora più frastagliata casistica: sicché una volta caduto il divieto di partecipazione le tematiche in punto di conflitto di interesse non possono che essere risolte in sede di governance concreta.
E a tal fine abbiamo sia una disciplina di settore, cioè tipica dell’ordinamento bancario, sia una disciplina di carattere generale.
Quanto alla disciplina di settore, oltre alle istruzioni di vigilanza già ricordate, va richiamato l’art. 136 TUB il quale prevede che “chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso una banca non può contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita, direttamente od indirettamente, con la banca che amministra, dirige o controlla, se non previa deliberazione dell’organo di amministrazione presa all’unanimità e col voto favorevole di tutti i componenti dell’organo di controllo, fermi restando gli obblighi previsti dal codice civile in materia di interessi degli amministratori e di operazioni con parti correlate” (art. 136, co. 1).
La disciplina riguarda anche “le obbligazioni intercorrenti con società controllate dai soggetti di cui ai medesimi commi o presso le quali gli stessi soggetti svolgono funzioni di amministrazione, direzione o controllo, nonché con le società da queste controllate o che le controllano” (v. art. 136, co. 2-bis).
Ai sensi del co. 2 dello stesso articolo, le medesime disposizioni si applicano a chi “svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo, presso una banca o società facenti parte di un gruppo bancario, per le obbligazioni e per gli atti indicati nel comma 1 posti in essere con la società medesima o per le operazioni di finanziamento poste in essere con altra società o con altra banca del gruppo”.
Tale disciplina basata sul mero principio dell’unanimità è oltremodo “generalizzante”, a tal punto che ricomprende a mo’ di tonnara anche tessere autostradali, bancomat o modestissimi inavvertiti sconfinamenti, il che fa sì che spesso costituisca un mero rituale, soprattutto perché non richiede alcuna motivazione specifica.
Soccorre tuttavia la disciplina ordinamentale, indotta dalla riforma del diritto societario, e precisamente gli artt. 2391 e 2391-bis, che hanno fatto venir meno la tradizionale e ultra rituale fictio dell’astensione.
Come noto l’art. 2391, co. 1 prevede che l’amministratore dia notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata (se si tratta però di amministratore delegato, deve astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale, se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile).
La relativa deliberazione del consiglio di amministrazione deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione (co. 2).
In altri termini, il nuovo testo dell’art. 2391 cod. civ. mira a realizzare l’obiettivo della trasparenza attraverso quella che in dottrina è stata definita «la estensione, quantitativa e qualitativa, dell’obbligo di informazione degli amministratori - di ciascun amministratore nei confronti degli altri e del collegio sindacale - circa “ogni interesse”, per conto proprio o di terzi, che eventualmente abbia “in una determinata operazione”, per quanto attiene all’an e alle sue modalità.
L’estensione è quantitativa rispetto al passato, in cui l’obbligo di “dare notizia” era ristretto all’”interesse [dell’amministratore, per conto proprio o di terzi, in una determinata operazione] in conflitto con quello della società”: si è così liberato l’amministratore dall’onere dell’auto-valutazione del rapporto fra il proprio interesse e quello della società, ponendo fine, almeno per quanto concerne l’obbligo di informazione dell’amministratore, alle infinite discussioni al riguardo (il che non toglie che la nuova disciplina resti, nel suo complesso, una disciplina del conflitto di interessi, in quanto volta a evitare il prevalere dell’interesse dell’amministratore sull’interesse sociale.
L’estensione è poi anche qualitativa, in quanto si esige che l’amministratore “precisi la natura, i termini, l’origine e la portata” dell’interesse, al fine di permettere all’organo amministrativo (consiglio di amministrazione, comitato esecutivo), cui l’onere è trasferito, di valutarlo adeguatamente.
All’auto-valutazione del singolo si sostituisce la valutazione del collegio» (così G. MINERVINI, Gli interessi di amministratori di S.p.A., in Giur. Comm., 2006, 2, 147).
Come è stato detto, la riforma ha sostituito il regime dell’astensione con quello dell’ostensione.
Nel senso che ora la normativa è orientata alla trasparenza e alla connessa esplicitazione della ragione per cui la decisione di assumere “contatti” con le parti correlate è da ritenersi rispondente a criteri di sana e prudente amministrazione.
Con riferimento alle operazioni con parti correlate (con riguardo alle sole società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio), l’art. 2391-bis c.c. stabilisce invece che “gli organi di amministrazione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio adottano, secondo principi generali indicati dalla Consob, regole che assicurano la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate, e a tali fini possono farsi assistere da esperti indipendenti, in ragione della natura, del valore o delle caratteristiche dell’operazione”.
Tali principi sopra citati si applicano alle operazioni realizzate direttamente o per il tramite di società controllate e disciplinano le operazioni stesse in termini di competenza decisionale, di motivazione e di documentazione (art. 2391-bis, co. 2).
La disciplina delle parti correlate così come dettata dal regolamento Consob del 2010 (delibera n. 17221 del 12 marzo 2010, modificata con delibera n. 17389 del 23 giugno 2010) è oltremodo puntuale.
Essa detta i principi ai quali le società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea e con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante si attengono al fine di assicurare la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate realizzate direttamente o per il tramite di società controllate.
Non è certo il caso di entrare in dettaglio in questa disciplina che del resto è stabilita attraverso principi, di talché richiede uno svolgimento da parte delle società interessate con delibere ad hoc (che comunque debbano essere adottate entro il 1° dicembre).
In sostanza il regolamento Consob opera come legge cornice: le società possono introdurre regole e procedure più severe ma non possono evidentemente ridurre né il campo di applicazione né mitigare i criteri e le procedure ivi indicate.
Da aggiungere che Banca d’Italia ha attualmente in consultazione una disciplina “parallela” delle parti correlate, che riguarda tutte le banche (e dunque anche quelle che non ricorrono al mercato del capitale di rischio).
Tale disciplina contiene regole più severe, e ciò evidentemente per la particolare “sensibilità” che ha la materia del credito, la quale si può prestare quam maxime ad operazioni anticoncorrenziali o comunque distorsive, e ciò - va detto - soprattutto nelle piccole banche dove i contatti con il territorio e dunque con interessi collegati (anche per “contrapposizione”) è per forza di cose molto ricorrente.
In particolare, sono previsti limiti per l’assunzione di attività di rischio nei confronto di soggetti collegati, non più del 2% se la parte correlata è di tipo finanziario, non più del 5% se la parte nomina componenti degli organi aziendali, non più del 15% negli altri casi.
Il testo è ancora in itinere, e dunque ogni analisi appare ultronea, tanto più che comunque è una disciplina che risponde a principi dell’art. 2391-bis.
Va comunque messo in chiaro che, in caso di inevitabili sovrapposizioni tra disciplina Consob (volta a tutelare precipuamente i risparmiatori) e disciplina di Bankitalia (volta a tutelare la stabilità), prevale la misura più restrittiva.

6) Ciò detto e senza dilungarsi sulle complesse procedure introdotte o “introducende” delle fonti sovraricordate sotto l’angolazione pubblicistica meritano particolare considerazione tre profili.
In primo luogo, il fatto che i principi rivenienti dalla delibera della Consob per quanto rivolti direttamente alle società quotate (o a quelle che ricorrono al mercato del capitale di rischio) pongono una serie di principi ad es. in punto di condizioni equivalenti, di mercato standard, di parti correlate, di società non correlate, di definizioni funzionali alla nozione di parti correlate, ad operazioni con parti correlate (v. punto 2 allegato 2) che sicuramente rilevano anche per la interpretazione delle normative volte ad evitare conflitti di interesse degli amministratori di cui all’art. 2391 con riguardo alle altre società.
Con ciò voglio dire che mentre le quotate devono seguire nell’integralità le procedure della Consob per le altre la disciplina in punto di conflitto di interessi ex art. 2391 investe tutte le categorie dei rapporti quali si evincono dalla nozione di parti correlate del 2391-bis e ciò per la ragione che se è correlata c’è un qualche interesse comune: questo è del resto un profilo che sarà ulteriormente precisato a seguito dell’approvazione della disciplina Bankitalia attualmente in consultazione.
In secondo luogo, che si tratta di una governance etero guidata dai poteri regolamentare delle autorità indipendenti.
C’è quindi una forte impronta pubblicistica quale diretta conseguenza dei poteri di regolazione attribuiti a tali autorità in funzione della tutela dei risparmiatori, del mercato, della stabilità.
In terzo luogo e soprattutto però questa disciplina finisce per introdurre all’interno delle società per azioni, cioè di quell’area per tradizione riservata quam maxime alla autonomia privata, tutta una serie di regole tipiche dei procedimenti amministrativi, quali appunto l’obbligo di motivazione, l’obbligo di trasparenza, la introduzione di procedure e dunque veri e propri procedimenti amministrativi con commissioni ad hoc e relativi tempi, l’istituto di derivazione pubblicistica del parere, il rilievo del cumulo di operazioni (come avviene per gli importi contrattuali nei contratti pubblici), le procedure semplificate per le operazioni di rilevanza minore (come per gli interventi edilizi), le delibere quadro (anche queste previste per i contratti pubblici).
Né questi possono essere considerati solo richiami di suggestione.
Il fatto che vi debbano essere procedure formali e obbligo di motivazione, fa sì che il potere deliberativo è funzionalizzato e ciò vale a maggior ragione per gli istituti di credito che sono soggetti vigilati e obbligati alla sana e prudente gestione.
Pertanto prima o poi ci si potrebbe domandare se sono censurabili carenze o illogicità della motivazione o carenze procedurali così come avviene per gli atti amministrativi o addirittura se possa intravedersi nei contenuti delle delibere in questione il vizio c.d. della funzione ovverosia l’eccesso di potere in tutte le sue note manifestazioni, quali contraddittorietà, difetto di istruttoria, illogicità, sviamento etc...
Invero una volta che vengono introdotte regole di procedura e di motivazione il relativo sindacato deve investire la sostanza del rapporto, come si ricava dai principi generali ed anche da quanto si ricava dallo stesso regolamento Consob (v. allegato 1 punto 3.1), laddove richiede che l’attenzione deve essere rivolta alla sostanza del rapporto e non semplicemente alla sua forma giuridica.
Sicché il sindacato giurisdizionale sia in sede di azione di responsabilità, sia a maggior ragione in sede di impugnativa di deliberazione non può che investire la legalità, la coerenza, la finalità delle regole e con esse della gestione.
Si noti che il trapianto dell’eccesso di potere non costituisce una novità assoluta per il diritto commerciale.
Già in passato autorevoli giuristi come Carnelutti, Ferri, Ascarelli, ebbero a richiamare l’istituto dell’eccesso di potere per abuso della maggioranza. Tesi tra l’altro applicata tuttora dalla giurisprudenza.
E’ vero che l’esportazione dell’eccesso di potere nel diritto commerciale è sovente contestata, soprattutto perché presuppone che si qualifichi il voto in assemblea come esercizio di un dovere, appunto di perseguire l’interesse sociale, mentre il potere esercitato dalla maggioranza da un lato non costituisce un dovere e dall’altro è svolto anche nel proprio interesse e non solo, come nell’esercizio di potestà amministrative, nell’interesse altrui.
Tale ordine di argomenti può essere contraddetto, quantomeno con riferimento alla nostra fattispecie, in quanto è indubbio che l’agire dell’amministratore è doveroso ed è a tutela di interessi altrui.
Ma in ogni caso il richiamo è sintomatico di una osmosi tra le due branche del diritto, e soprattutto, per il tramite della disciplina funzionalizzata e procedurale in punto di parti correlate e di conflitto di interessi, è significativo il fatto che le rilevantissime e garantistiche acquisizioni raggiunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativista onde piegare alla legalità e alla ragione l’azione amministrativa, possono, anzi debbono essere utilmente impiegate per sottoporre a scrutinio stretto l’azione degli amministratori di società di capitali, nell’interesse di quest’ultimo.
Giuseppe Morbidelli
Ordinario di diritto amministrativo
nell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma