Orizzonti del Credito

Con il contributo di Banca Interprovinciale

Novus Ordo Seculorum?
Da sinistra: Renzo Lambertini Preside della Facoltà di Giurisprudenza - Università Modena, Antonio Patuelli Presidente dell’Accademia degli Incamminati di Modigliana, Aljs Vignudelli Direttore della Scuola di Dottorato in Scienze Giuridiche - Università Modena, Ferdinando Taddei Presidente Accademia di Scienze Lettere e Arti di Modena, Luigi Foffani Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche - Università Modena

Novus Ordo Seculorum?

L’evento odierno potrebbe definirsi “degli incontri” per un variegato ordine di motivi, attinenti sia ai soggetti che lo hanno promosso, sia all’individuazione del suo oggetto.

Dal primo punto di vista, l’iniziativa che ci occupa è il cluster fra tre protagonisti notevoli della scena culturale emiliano romagnola oltreché nazionale, quale l’Ateneo mutinense, fondato da Pilio da Medicina, allievo di Irnerio, nel XII secolo, l’Accademia di Scienze Lettere e Arti Modena (già Accademia dei Dissonanti), che data al secolo XVII, e l’Accademia degli Incamminati di Modigliana, anch’essa attiva dal XVII secolo.

Proprio ragionando col Presidente di quest’ultima (Antonio Patuelli), della quale faccio parte da circa un trentennio, mi capitò di riportargli una mia conversazione col Presidente dell’Accademia nazionale di Modena (Ferdinando Taddei, già Rettore dell’Ateneo modenese) sull’importanza della circolarità della cultura anche attraverso le Accademie – le quali, in stretta relazione col mondo accademico, sono esse stesse in grado di porsi come creatrici dell’oggetto culturale e polo dell’interscambio col mondo socio-economico – ed entrambi convenimmo sull’importanza del riscontro personale nel senso di “partecipato”, anche fisicamente, in questi luoghi d’antica sapienza. Tutto ciò a fronte della tendenza, sempre più diffusa nel terzo millennio, a parlare nientemeno che di “rivoluzione post-naturale”, ove il corpo (che abdica a se stesso delegando la rappresentanza delle proprie funzioni al dito che preme bottoni di telecomandi e tastiere) finisce progressivamente col perdere il rapporto con la realtà sensibile, appunto, attraverso un’artificialità che via via diviene estranea alla natura, riducendo, in tal modo, pure la forte atavica esigenza di rapporto, di contatto sociale e soprattutto culturale. Così, conversando pure col Preside della mia Facoltà (Renzo Lambertini) e col Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche (Luigi Foffani), s’è convenuto che, proprio nell’epoca della globalizzazione (glocalismo?), favorire un evento come quello di oggi avrebbe potuto rappresentare una buona opportunità anche per la nostra Scuola di dottorato – oltre che per gli studenti, non solo di Giurisprudenza – offrendo l’opportunità per una riflessione qualitativamente significativa su problematiche generali ed interdisciplinari di grande attualità: ciò, proprio in una fase di definizione del ruolo dell’Università che – indipendentemente da punti di vista anche in senso critico – vede privilegiati come valori “forti”, e per taluni aspetti premiali, da un lato quello legato a una metodologia che abbraccia più aree scientifiche o più discipline, dall’altro quello che presenta una valenza d’impatto e fruibilità immediati nel contesto presente.

Ed anche la scelta del tema è stata il frutto di “incontri”, essendo essa emersa – mio tramite – da una convergenza tra l’amico Patuelli (nonché il Presidente Venesio, grazie ai buoni ufficî del primo), che è un importante protagonista del mondo del credito, e i colleghi Bonfatti e Morbidelli, a loro volta presidenti di pregevoli istituzioni bancarie, i quali, alla luce delle vicende che hanno coinvolto pesantemente il settore dell’economia, hanno convenuto sull’importanza d’effettuare il fixing della situazione per approfondire le ragioni della buona tenuta del sistema Italia, a petto della formazione in itinere d’una nuova normativa comunitaria di tutela del sistema bancario e del consumo finanziario e d’una legislazione nazionale di riforma volta a superare gli ostacoli tradizionalmente frapposti – per la verità non senza ragionevoli giustificazioni – all’ingresso dell’industria nelle partecipazioni bancarie.

Più nel dettaglio – venendo ora ai contenuti del Convegno – l’argomento d’ingresso di tutto il discorso non ha potuto che riguardare la specificità del sistema bancario e finanziario italiano nella prospettiva della grande crisi dell’economia mondiale in generale e di quella europea in particolare, dove risaltano i noti casi Grecia ed Irlanda, con l’Euro sottoposto a non irrilevanti bordate da parte della speculazione finanziaria internazionale. Il che introduce l’ulteriore interrogativo sul perché, se corrisponde al vero, le Banche italiane abbiano resistito meglio di quelle degli altri paesi ad economia avanzata: eravamo più arretrati o più severi? Oppure tutti e due? Com’è noto, infatti, fin dagli anni Trenta del secolo scorso, il nostro settore bancario è stato caratterizzato da un’impostazione “dirigistica”, nell’àmbito della quale s’introdusse una discrezionalità delle autorità creditizie talmente ampia da configurare una vera e propria vigilanza funzionalizzante sulle imprese. Vigilanza che si è, per certi versi, trasferita in capo alla Banca d’Italia, che esercita, di fatto, tutti i poteri amministrativi sulle banche, sia di regolamentazione, sia d’intervento conformativo e repressivo, giungendo ad incidere sulla stessa disciplina della concorrenza, nonostante dagli anni Novanta – anche sotto la spinta del diritto comunitario – si sia intrapresa la strada del mercato, a partire dalla privatizzazione delle banche pubbliche ad opera dalla c.d. “legge Amato” del 1990 e poi, in modo più compiuto, col Testo Unico del 1993.

In coerenza, il secondo intervento dell’incontro concerne una disciplina in itinere finalizzata a garantire la solidità delle banche, che supererebbe quella di Basilea II, imponendo requisiti patrimoniali più severi affinché gli istituti di credito abbiano più risorse per resistere, tra molto altro, all’insolvenza dei mutui. Ed in un simile quadro non è irragionevole chiedersi se sia ancora valida la tesi del “troppo grande per fallire”: è virtuoso avere una grande General Motor, ma magari non si può dire altrettanto per la Bank of America dal momento che il dissesto di una banca dalle dimensioni eccessive potrebbe produrre effetti non fronteggiabili. Il che dovrebbe forse indurre a riflettere sulla stagione delle fusioni di qualche anno addietro, durante la quale s’è assistito – sia sul piano interno, sia su quello europeo ed internazionale – al progressivo accorpamento degli enti creditizî in gruppi sempre più complessi ed articolati, non senza passaggi delicati, ad esempio quando le esigenze della globalizzazione e dell’integrazione comunitaria si sono scontrate con la difesa delle identità nazionali (basti ricordare la contesa di Antonveneta tra l’olandese Abn Amro e l’italiana Banca popolare di Lodi).

Di grande attualità è poi la materia di cui – sotto i profili privatistici e pubblicistici – si sono occupati i Professori Bonfatti e Morbidelli, riguardante l’eliminazione, operata dalla legge n. 2 del 2009 in attuazione della direttiva comunitaria n. 44 del 2007, del divieto di partecipazione delle imprese nelle banche, in forza del quale si prevedeva che i soggetti che anche attraverso società controllate svolgessero in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari non potessero essere autorizzati dalla Banca d’Italia ad acquisire partecipazioni quando la quota dei diritti di voto complessivamente detenuta fosse superiore al 15% o quando ne conseguisse, comunque, il controllo della banca partecipata, rimanendo in ogni caso un potere ostativo della Banca d’Italia verso le imprese non bancarie riguardo a concentrazioni di potere per la nomina e revoca degli amministratori o componenti del consiglio di amministrazione qualora potessero pregiudicare la gestione sana e prudente. Ma parimenti portatrice di dubbî e riflessioni non secondarî è l’altra faccia della medaglia, relativa alla partecipazione delle banche nelle industrie, che fu limitata fin dal 1926, in séguito alla crisi di quegli anni, proprio in vista d’un generale risanamento del mercato bancario, dove l’eccessiva libertà aveva generato dissesti dovuti a gravi carenze di liquidità.

Nel complesso, la questione di fondo parrebbe essere, ancora una volta, quella dell’equilibrio tra libertà d’impresa (bancaria) ed esigenze pubbliche di regolamentazione, ormai distribuite in uno scenario multilivello esteso dai “vecchi” Stati, alle autorità europee ed alle istituzioni transnazionali. È in questa prospettiva che si ripropone il problema di assicurare, da una parte, la piena esplicazione delle forze del mercato e, dall’altra parte, la necessaria garanzia d’una serie di situazioni soggettive che ricevono, peraltro, un esplicito riconoscimento nella nostra Costituzione, a cominciare dalla tutela del risparmio (e quindi, per certi aspetti, anche del “consumatore di prodotti finanziarî”) dell’art. 47, trovando proprio nella stabilità del relativo quadro economico la loro precondizione essenziale.

E tutto ciò va considerato anche e soprattutto nell’ottica di quegli inediti confini del credito e dell’intermediazione finanziaria che – fra l’altro – conducono pure all’utilizzo delle nuove tecnologie, evidentemente implicando ignote complessità. Del resto, in un’economia sempre più tesa a superare limiti di spazio e tempo, che viceversa hanno finora rappresentato gli elementi classici di una dimensione giuridica di controllo, la sete di guadagno non parrebbe mai compiutamente soddisfatta, nonostante le buriane che spirano (e sempre più spireranno) da Oriente. Infatti, per dirla con Natalino Irti, il moderno capitalismo è impaziente rispetto ai confini, agitato dalla volontà di profitto e proteso alla conquista di nuovi mercati: «pura orizzontalità, sciolta dalla verticalità del radicamento». In tale quadro, le moderne forme di contrattazione (ed in primis la negoziazione telematica) possono offrire agli operatori finanziarî una ricca panoplia di opportunità e potenzialità economiche che vanno a concretarsi nell’innovazione di prodotto, di processo distributivo e di mercato: se l’Internet economy rappresenta la new economy il mondo della finanza ha l’onere di partecipare attivamente a detta rivoluzione. Ma se il ricorso alla tecnologia rende possibile agli istituti di credito l’assunzione di nuovi ruoli d’impresa, nel contempo ad essi parrebbe doversi collegare un corrispettivo maggior impegno nell’àmbito della sicurezza.

La complessiva evoluzione dei sistemi finanziarî, invero, impegna (a tempo pieno) le specifiche autorità di controllo ad adeguare le norme, le metodologie d’analisi e gli schemi di sorveglianza, senz’ostacolare, anzi incoraggiando, la ricerca di soluzioni innovative da parte degli operatori. Coerentemente, la varietà delle problematiche in essere richiede soluzioni attente al quadro complessivo (e non soltanto agli interessi di una delle parti, per quanto significativa possa essere), al fine d’assicurare parità di condizioni concorrenziali fra operatori economico-finanziarî nazionali ed esteri, riducendo così al minimo la possibilità (sempre alta) di arbitraggî normativi volti ad eludere i controlli.

C'è da chiedersi se non si stia profilando all'orizzonte dell'economia mondiale un nuovo assetto paragonabile a quello che i padri fondatori degli Stati Uniti d'America preconizzarono nel Great Seal del 1782 decretando l'inizio di un novus ordo seculorum, con una frase ripresa dalle Egloghe di Virgilio non a caso riprodotta dal 1935 sul retro delle banconote da un dollaro!
Aljs Vignudelli
Odinario di Diritto Costituzionale
nell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia