Il pensiero e l’opera di
Vittorio Emanuele Orlando

Claudio De Fiores


Claudio De Fiores
Claudio De Fiores, Seconda Università degli Studi di Napoli

ASCESA E DECLINO DEL METODO ORLANDIANO

Vi è un nodo che pervade la riflessione di Vittorio Emanuele Orlando. Un nodo destinato a condizionare gli sviluppi, i contenuti, gli esiti non solo della sua opera, ma anche della sua stessa biografia. Ci si riferisce al tema della costruzione dello Stato italiano e dei suoi rapporti con la forma nazione. Tutte i principali cleavages che attraverseranno l’opera orlandiana (la questione del metodo, il ruolo dell’amministrazione, il rapporto tra Stato e popolo, la costruzione giuridica dello Stato, il ruolo dei giuristi) possono essere letti in controluce a partire da quello che fu il costante assillo della sua produzione scientifica: la questione dello Stato e della costruzione del diritto nazionale.

Su questo terreno la rottura tra la dottrina orlandiana e la cultura giuridica preunitaria è netta: se per i giuristi della prima metà dell’Ottocento l’idea di nazione alludeva prevalentemente alla sovranità popolare, Orlando respinge risolutamente questo impianto culturale ritenendolo irreparabilmente permeato da categorie e suggestioni di ascendenza rivoluzionaria.

Il rapporto tra nazione e costituzione che aveva rappresentato uno degli assi portanti della cultura risorgimentale viene così drasticamente reciso. E ciò avviene da una parte procedendo al definitivo «accantonamento della tradizione di pensiero “radicale” (da Romagnosi a Ferrari a Cattaneo a Pisacane)» (S. Cassese, Cultura e politica nel diritto amministrativo, Bologna, 1971, 29). Dall’altra additando, alle future generazioni di giuristi, tutte le sciagure prodotte dalla giuspubblicistica preunitaria, i suoi limiti culturali, «i mali derivanti da troppa filosofia e da troppa esegesi» (V.E. Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico (1889), in Idem, Diritto pubblici generale. Scritti varii (1881-1940) coordinati in sistema, Milano, 1954, 21).

La condanna della cultura giuridica risorgimentale è senza appello. Per Orlando si tratta della «meno nobile e degna manifestazione del pensiero giuridico e della sua attività creativa giuridica» (V.E. Orlando, I criteri tecnici, cit., 20). Una pseudo-dottrina che abbandonata a se stessa avrebbe rischiato di travolgere «il principio della divisione del lavoro scientifico», dissolvendo il sapere giuridico all’interno di una dimensione gnoseologica indistinta fatta di filosofia, politica, economia, sociologia.

Un vero e proprio j’accuse, i cui effetti non tarderanno a manifestarsi. Nell’arco di pochi anni sulla cultura giuridica italiana si abbatterà una vera e propria damnatio memoriae: «gli autori preorlandiani scompaiono, non vengono più citati… vengono semplicemente accantonati prima e dimenticati poi» (G. Azzariti, La “prima” scuola italiana di diritto pubblico tra continuità e rotture (1997), in Idem, Forme e soggetti della democrazia pluralista, Torino, 2000, 29).

Su di loro grava l’imperdonabile responsabilità di essersi costantemente mossi nel solco del diritto francese mutuando dalle sue perniciose astrazioni l’idea di potere costituente, la dimensione “naturale” dei diritti, la separazione dei poteri, la sovranità popolare. Un coacervo di istanze e di principi nei quali l’Autore della Resistenza politica intravede la «negazione di qualsiasi ordinamento giuridico, che presupponga la sicurezza e la stabilità del diritto» (V.E. Orlando, Della resistenza politica individuale e collettiva, Torino, 1885, 109).

A giudizio di Orlando il compimento del processo unitario necessitava, per converso, di una nuova ed inedita frontiera di studi giuridici che, ponendo fine alle distorsioni esegetiche del passato, fosse finalmente in grado di affermare la centralità del diritto positivo e della legge. Un vero e proprio avamposto culturale capace di fare del diritto pubblico una disciplina a tutti gli effetti, dotandolo – al pari del diritto privato – di uno statuto scientifico in grado di recepire «le varie nozioni ed i vari istituti giuridici come delle entità reali, esistenti, viventi» (V.E. Orlando, I criteri tecnici, cit., 13).

Era questo il gap che la scienza del diritto pubblico avrebbe dovuto colmare procedendo alla costruzione di una nuova scuola. Una “vera” scuola dei giuristi italiani con un suo autonomo statuto scientifico, un’impronta culturale definita, finalità ben precise: trasformare il diritto costituzionale da terreno di studio e di ricerca sui diritti, sul potere e sui suoi limiti in strumento di conservazione e riproduzione del diritto esistente.

Tra i criteri, posti da Orlando, il “richiamo all’esistente” è quello destinato ad assumere – rispetto agli altri e più degli altri – una valenza pressoché paradigmatica: «Noi non dobbiamo occuparci di uno Stato ottimo, ma di uno Stato esistente, non della sovranità di un’idea, ma della sovranità dei poteri costituiti, non dei diritti dell’uomo, ma della tutela giuridica della sfera individuale» (V.E. Orlando, I criteri tecnici, cit., 21).

Di qui l’esigenza posta dal giurista siciliano di rifondare il diritto pubblico avvalendosi a tal fine di tutti i principali strumenti fornitigli dal metodo giuridico, dal formalismo positivistico, dal tecnicismo normativo. Uno strumentario dogmatico-concettuale quanto mai originale e in grado di puntellare la costruzione giuridica dello Stato italiano e, per questa via, la realizzazione del diritto nazionale.

Assunta tale prospettiva il giovane Orlando guarda con sempre maggiore interesse alla Germania e a Savigny.

E come per il padre della Scuola storica tedesca, anche per il giovane fondatore della scuola italiana l’alfa e l’omega del «diritto pubblico moderno» coincidono con la sovranità dello Stato. Riconoscerne finalmente il principio sarebbe stato «un grande progresso… Esso affranca anzitutto il concetto di sovranità dalle modalità affatto transitorie delle forme politiche: una è la sovranità, costante nella sua essenza, variabile nelle sue manifestazioni» (V.E. Orlando, Della resistenza politica individuale e collettiva, cit., 110).

Riproponendo i moduli interpretativi della concezione statocentrica dell’ordinamento, Orlando ritiene, pertanto, che lo Stato prevale sui «diritti subiettivi pubblici» dei cittadini. Diritti che altro non sono che una concessione dello Stato.

Di qui la sua avversione, mutuata anch’essa dalla dottrina tedesca, alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo (i diritti competono «non all’uomo, ma al cittadino»), al costituzionalismo di impronta francese e quella che era stata in Italia la sua singolare declinazione in termini di “scienza della libertà”: «noi non vogliamo certo tornare – scrive Orlando – alle teorie del diritto naturale, né pretendere che vi sia un diritto inerente alla personalità umana, quasi una dotazione propria ed inalienabile di essa: diritto che preceda razionalmente lo Stato e ne limiti l’impero. No; noi crediamo che tutto il diritto derivi dallo Stato» (V.E. Orlando, Prefazione a G. Jellinek, Sistema dei diritti pubblici subiettivi, Milano, 1912, XI).

Ma bersaglio privilegiato della critica orlandiana dei diritti “naturali” sarà soprattutto la teoria democratica del suffragio universale che considera «il Diritto elettorale… inseparabile dalla natura umana» (V.E. Orlando, Delle forme e delle forze politiche secondo H. Spencer (1881), in Idem, Diritto pubblico generale, PG, 573).

Smantellata l'ideologia dell'uguaglianza, Orlando, sulla scorta degli scritti di Spencer, ritiene che la società sia il luogo nel quale fioriscono darwinianamente le differenze. Lo spazio della competizione che seleziona gli uomini superiori. E dal principio di selezione scaturirebbe non solo un migliore assetto della società civile (grazie alle leggi del mercato), ma anche della società politica (grazie all’impiego di congegni elettorali di per se idonei a selezionare i migliori).

Tuttavia per Orlando la composizione della rappresentanza non va intesa «come scelta», come spazio ed espressione dell’agire politico, ma come procedimento funzionalizzato alla conformazione dell'organo statuale.

L’impossibilità di impiegare gli schemi giuridici sottesi all’istituto privatistico della rappresentanza («l’elezione non è delegazione di poteri, ma designazione di capacità») e il riconoscimento dell’autonomia del parlamentare (con i suoi complessi istituti giuridici di supporto) costituiscono, agli occhi di Orlando, la dimostrazione più eloquente dell’assenza di mandato nella rappresentanza politica. Non si potrebbe altrimenti comprendere – obietta Orlando nei Principii di diritto costituzionale – per quale ragione «l’eletto… conserva una piena indipendenza di opinioni e di condotta, o in altri termini, egli non rappresenta che sé stesso» (V.E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, Firenze, 1912, 84).

Si tratta di una costruzione teorica volta, a mio modo di vedere, ad affermare un principio di fondo. Tanto semplice, quanto rilevante nelle sue implicazioni: il voto non è un diritto, ma una mera funzione che il cittadino è chiamato ad espletare per consentire al­lo Stato e ai suoi organi di operare.

Il popolo-nazione da entità sovrana diviene così in Orlando una entità servente dello Stato. E l’elezione nient’altro che una mera «designazione di capacità». Il mezzo più adatto per selezionare gli individui competenti, «i migliori e i più adatti (politicamente, ben inteso)» per governare la società (V.E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, cit., 96).

Una concezione che per funzionare ha però bisogno di poggiare e di assumere quale variabile fissa l’omogeneità politica e sociale dei rappresentati. Solo se sussiste, alla base, l’omogeneità del corpo elettorale, questa stessa omogeneità può coerentemente riflettersi sulla rappresentanza e per questa via sullo Stato.

Di qui le prime crepe e poi il progressivo declino del sistema orlandiano destinato a scontrarsi, a cavallo fra i due secoli, con le tumultuose trasformazioni sociali, il suffragio universale, la nascita dei partiti di massa.
Claudio De Fiores
Seconda Università degli Studi di Napoli