Tommaso Edoardo Frosini
VITTORIO EMANUELE ORLANDO, COSTITUZIONALISTA E TEORICO DEL DIRITTO PUBBLICO
1. Quando si dice il destino: nel mentre che le truppe garibaldine, dopo essere sbarcate a Marsala, marciavano verso Palermo, e quindi nel pieno dell’insurrezione antiborbonica, nasceva in quella città Vittorio Emanuele Orlando: era il 19 maggio del 1860. Orlando, compiuti gli studi nella Facoltà di giurisprudenza palermitana si laureò con il massimo dei voti e la lode nel luglio del 1881, e nello stesso anno pubblica l’articolo Delle forme e delle forze politiche secondo H. Spencer e poi scrive il saggio Della riforma elettorale, che gli valse il premio del “Reale Istituto Lombardo di Scienze e di Lettere” e nel quale era già contenuto il nucleo del suo liberalismo. Rientrato in Italia, dopo un periodo in Germania, nel dicembre del 1882 consegue la libera docenza in diritto costituzionale nell’Università di Palermo. Tre anni dopo, e quindi nel 1885 appena venticinquenne, vince il concorso e viene nominato professore straordinario di diritto costituzionale nell’Università di Modena; dove, il 4 dicembre del 1885, tiene la prolusione al corso di diritto costituzionale dedicata a Ordine giuridico e ordine politico, che farà parte di una triade di prolusioni, dopo Modena a Messina (1886) e poi Palermo (1889), che troverà definitiva sistematizzazione nel saggio su I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico. Prolusione fondamentale e vorrei dire fondante l’Orlando pensiero. La quale rappresenta davvero le prime sementa della dottrina giuspubblicistica italiana, che fiorirà proprio a partire dalla prolusione.
Per “raccontare” Orlando costituzionalista e teorico del diritto pubblico ho deciso di privilegiare due aspetti in particolare: a) gli studi sul metodo; b) gli studi sulla forma di governo.
2. Prima però mi sia concesso di procedere attraverso una breve indagine sulle radici del pensiero costituzionalistico, che vadano individuate nella terra di Sicilia. Il costituzionalismo siciliano non è solo per nascita ma soprattutto per appartenenza. Appartenere cioè a quell’Isola a cui spetta il primato nello sviluppo delle istituzioni costituzionali e rappresentative: il Parlamento siciliano, infatti, è stato il primo a sorgere nella storia moderna d’Europa, precedendo persino il Parlamento inglese di Simone di Montfort. È in questo clima, e attraverso altre esperienze, che nasce e cresce il costituzionalismo siciliano della seconda metà dell’Ottocento: Orlando e gli altri costituzionalisti trovano nella Sicilia non solo il luogo geografico di nascita ma una certa idea di costituzionalismo. Come scrive Vittorio Emanuele Orlando nella presentazione dei suoi scritti di Diritto pubblico generale del 1940: «Solo la Sicilia avrebbe potuto vantare un diritto pubblico, una sua costituzione secolare di carattere rappresentativo, che aveva avuto sviluppi singolarmente analoghi a quelli della costituzione inglese». Ancora Orlando, stavolta in Assemblea costituente nella seduta del 21 marzo 1947: «Perché parlamentare, questo sì, mi sento. Vi contribuisce forse l’essere io nato in Sicilia, in quella Sicilia che vanta il primo Parlamento della storia, superando la stessa Inghilterra».
3. Punto di partenza, e vorrei dire anche di arrivo, della dottrina di Orlando è senz’altro il saggio sui Criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico. Conviene quindi iniziare dalla prolusione del 1889 sui Criteri tecnici, i cui contenuti provo a sintetizzare: l’obiettivo è quello di fondare un nuovo metodo di studio del diritto pubblico, liberandolo dagli abusi rappresentati dalla degenerazione sia filosofico-concettualistica che esegetico-praticistica, per considerarlo «nel modo stesso che il diritto privato, [e cioè] come un complesso di principi giuridici sistematicamente coordinati […]». Perché, scrive ancora Orlando, «Noi non dobbiamo occuparci di uno Stato ottimo, ma di uno Stato esistente, non della sovranità di una idea ma della sovranità di poteri costituiti, non dei diritti dell’uomo ma della tutela della sfera giuridica individuale, onde la libertà non si concepisce più come mera potenzialità ma come attività effettiva». Il progetto-programma di Orlando è quindi quello di fondare un nuovo diritto pubblico, a cui dare una rinnovata identità disciplinare ma soprattutto che fosse in grado di svolgere un ruolo dominante nella dinamica dello Stato in costruzione. Quindi, un diritto pubblico che fosse la dottrina dello Stato e non una dottrina della costituzione: trasferendo nella capacità dello Stato-persona di essere autenticamente sovrano la garanzia più efficace del patto fondamentale, che sta alla base della monarchia costituzionale. Non indugio ulteriormente sui contenuti dei Criteri tecnici e mi provo a dare qualche lettura interpretativa. Innanzitutto e soprattutto bisogna storicizzare, ovvero collocare lo scritto di Orlando, e quindi ciò che ne consegue in termini di metodo e motivazione storico-politico, nella sua dimensione storica. Solo così si apprezza in pieno.
Di fronte a un diritto pubblico formato da un «mostruoso accoppiamento di una metafisica presuntuosa col pedestre commento di un infelice documento legislativo» – come scrive Orlando – e uno Stato da poco divenuto unitario e quindi tutto da costruire, cosa deve fare un costituzionalista? Quello che riesce a Orlando è ammirevole e storicamente corretto: da un lato, dare un senso all’impegno e alla missione di giurista e di professore universitario, elaborando nuovi criteri per lo studio e il metodo del diritto pubblico e creando una nuova scuola di giuspubblicisti, che si facciano portatori e diffusori di quel metodo; dall’altro lato, contribuire, come giurista e come uomo politico, a definire le strutture portanti del nuovo Stato e fondare così una certa idea di Nazione. Vorrei dire ancora, che come studioso Orlando indicò un metodo da seguire, estratto dalla secolare esperienza del diritto privato, come politico indicò un modello costituzionale da elaborare su cui fondare la ragione dello Stato.
Il problema del metodo, quindi, insieme al concetto giuridico dello Stato, come personificazione astrattamente unitaria della nazione: questi sono i due motivi essenziali al centro della dottrina di Orlando.
4. La posizione di Orlando in tema di parlamentarismo si manifesta attraverso un saggio eloquentemente titolato: La decadenza del sistema parlamentare (1884), ma a ben vedere non molto severo nei confronti del parlamentarismo. È pur vero che Orlando condivide il carattere catastrofista della letteratura costituzionalistica antiparlamentare sulla validità delle istituzioni rappresentative, ma la conclusione del suo ragionare non è critica verso il governo parlamentare. Orlando, quindi, sostiene che la decadenza del sistema politico non è imputabile ai meccanismi incerti del parlamentarismo ma piuttosto nella “grande disgregazione sociale”: le cui cause sono determinate dalla “rottura del partito medio”, il quale poteva equilibrare gli estremi, e dalla “anarchia parlamentare”, in quanto basata su “formule vuote ed astratte”.
L’approccio cambia con la pubblicazione degli Studi giuridici del governo parlamentare (1886): Orlando si pone come obiettivo quello di provare l’identità di Rechtsstaat e governo parlamentare, ovvero il fondamento giuridico del governo parlamentare. L’errore commesso dai critici del parlamentarismo, secondo Orlando, è quello di avere fatto confusione dei criteri propri all’ordine giuridico. Da qui la necessità dell’adozione di un metodo giuridico, che sarà poi la cifra che contraddistinguerà la speculazione scientifica di Orlando. Conclusione degli Studi è (anche) la elaborazione della teoria giuridica del Governo di Gabinetto. La soluzione giuridica di Orlando è quella di un governo fondato sulla maggioranza parlamentare insieme a un forte ruolo, di equilibrio e di sostegno, del Capo dello Stato. Una forma di governo dualista, tributaria del modello inglese, inteso nel suo significato storico-tradizionale, che contempera l’equilibrio fra poteri, in particolare fra la prerogativa regia e la maggioranza parlamentare.
Due parole, però, conviene spenderle su altro tema, che è liminare al problema del parlamentarismo: la rappresentanza politica. Sul punto, Orlando elabora una tesi, che muove da due premesse: la convinzione che i termini popolo e Nazione debbano essere considerati sostanzialmente equivalenti, mentre invece «popolo e Stato vengano considerati le due facce, sinteticamente distinte, di un’idea essenzialmente unica, in base alla quale il popolo trova nello Stato la sua personalità giuridica e lo Stato trova nel popolo l’elemento materiale che lo costituisce». Orlando rifiuta l’idea di una delegazione di poteri da parte del popolo verso l’Assemblea legislativa; il popolo, allora, non è sovrano, non è titolare del potere costituente, non è quindi la fonte della sovranità. Questa è dello Stato, che si manifesta in più organi, così come la rappresentanza dello Stato risiede in più organi: con la conseguenza che tutti gli organi dello Stato debbono essere considerati rappresentativi.
Attraverso l’affermazione di una nozione organica dello Stato, Orlando finisce col rigettare la teoria della divisione dei poteri, in quanto viziata da un errore “sostanziale”, perché «contraddice a quel principio essenziale, che vede nello Stato un organismo, per quanto sui generis, in cui tutte le parti sono connesse, tutte le funzioni coordinate sino a fondersi tutte in una grande unità». E, altrettanto, Orlando non può che rigettare la sovranità popolare: sia perché considera lo Stato il solo sovrano, sia perché considera l’espressione popolo come equivalente della parola Stato, ed è nello Stato che il popolo trova la sua vera espressione come unità giuridica. Il dogma della sovranità dello Stato assumerà i toni di una ideologia politica in grado di servire le classi dominanti per giustificare e conservare il proprio potere politico. E sarà, quello della sovranità dello Stato con la negazione della divisione dei poteri e della sovranità popolare, uno degli accenti caratterizzanti la dottrina giuridica e politica fascista. Orlando fu un giurista liberale, sia pure un liberalismo di matrice tedesca, attento a non alterare l’equilibrio Stato-cittadino o pubblico-privato; garantendolo attraverso la concezione giuridica dello Stato, nonché dei rapporti tra questo e i soggetti privati.
5. Su altri temi avrei potuto “raccontare” l’Orlando pensiero: dal diritto di resistenza individuale e collettiva alla teoria giuridica delle guarantigie della libertà, dove si sviluppa quel progetto di “sistemazione rigorosamente giuridica” delle libertà. Oppure soffermarmi sugli ultimi suoi lavori, quando già quasi novantenne, si dedica a un innovativo e profetico tema La rivoluzione mondiale e il diritto. Ancora, la prolusione all’a.a. 1947-48 nella romana Sapienza e dedicata a La crisi del diritto internazionale e poi il lungo saggio del 1951 sullo Studio intorno alla forma di governo vigente in Italia secondo la Costituzione del 1948.
Certo, al di là del notevole interesse che suscitano gli scritti poc’anzi ricordati, c’è un filo rosso che li lega e li tiene insieme. È quello che era emerso subito, fin dal giovane Orlando della prolusione modenese, del costituzionalista che si fa teorico del diritto. Il quale, anche nel tramontare della sua attività scientifica, torna con insistenza sui vecchi motivi: i criteri tecnici, il metodo giuridico, il diritto privato, il diritto romano. Erano queste e rimangono queste le radici del suo pensiero costituzionalistico.
Per “raccontare” Orlando costituzionalista e teorico del diritto pubblico ho deciso di privilegiare due aspetti in particolare: a) gli studi sul metodo; b) gli studi sulla forma di governo.
2. Prima però mi sia concesso di procedere attraverso una breve indagine sulle radici del pensiero costituzionalistico, che vadano individuate nella terra di Sicilia. Il costituzionalismo siciliano non è solo per nascita ma soprattutto per appartenenza. Appartenere cioè a quell’Isola a cui spetta il primato nello sviluppo delle istituzioni costituzionali e rappresentative: il Parlamento siciliano, infatti, è stato il primo a sorgere nella storia moderna d’Europa, precedendo persino il Parlamento inglese di Simone di Montfort. È in questo clima, e attraverso altre esperienze, che nasce e cresce il costituzionalismo siciliano della seconda metà dell’Ottocento: Orlando e gli altri costituzionalisti trovano nella Sicilia non solo il luogo geografico di nascita ma una certa idea di costituzionalismo. Come scrive Vittorio Emanuele Orlando nella presentazione dei suoi scritti di Diritto pubblico generale del 1940: «Solo la Sicilia avrebbe potuto vantare un diritto pubblico, una sua costituzione secolare di carattere rappresentativo, che aveva avuto sviluppi singolarmente analoghi a quelli della costituzione inglese». Ancora Orlando, stavolta in Assemblea costituente nella seduta del 21 marzo 1947: «Perché parlamentare, questo sì, mi sento. Vi contribuisce forse l’essere io nato in Sicilia, in quella Sicilia che vanta il primo Parlamento della storia, superando la stessa Inghilterra».
3. Punto di partenza, e vorrei dire anche di arrivo, della dottrina di Orlando è senz’altro il saggio sui Criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico. Conviene quindi iniziare dalla prolusione del 1889 sui Criteri tecnici, i cui contenuti provo a sintetizzare: l’obiettivo è quello di fondare un nuovo metodo di studio del diritto pubblico, liberandolo dagli abusi rappresentati dalla degenerazione sia filosofico-concettualistica che esegetico-praticistica, per considerarlo «nel modo stesso che il diritto privato, [e cioè] come un complesso di principi giuridici sistematicamente coordinati […]». Perché, scrive ancora Orlando, «Noi non dobbiamo occuparci di uno Stato ottimo, ma di uno Stato esistente, non della sovranità di una idea ma della sovranità di poteri costituiti, non dei diritti dell’uomo ma della tutela della sfera giuridica individuale, onde la libertà non si concepisce più come mera potenzialità ma come attività effettiva». Il progetto-programma di Orlando è quindi quello di fondare un nuovo diritto pubblico, a cui dare una rinnovata identità disciplinare ma soprattutto che fosse in grado di svolgere un ruolo dominante nella dinamica dello Stato in costruzione. Quindi, un diritto pubblico che fosse la dottrina dello Stato e non una dottrina della costituzione: trasferendo nella capacità dello Stato-persona di essere autenticamente sovrano la garanzia più efficace del patto fondamentale, che sta alla base della monarchia costituzionale. Non indugio ulteriormente sui contenuti dei Criteri tecnici e mi provo a dare qualche lettura interpretativa. Innanzitutto e soprattutto bisogna storicizzare, ovvero collocare lo scritto di Orlando, e quindi ciò che ne consegue in termini di metodo e motivazione storico-politico, nella sua dimensione storica. Solo così si apprezza in pieno.
Di fronte a un diritto pubblico formato da un «mostruoso accoppiamento di una metafisica presuntuosa col pedestre commento di un infelice documento legislativo» – come scrive Orlando – e uno Stato da poco divenuto unitario e quindi tutto da costruire, cosa deve fare un costituzionalista? Quello che riesce a Orlando è ammirevole e storicamente corretto: da un lato, dare un senso all’impegno e alla missione di giurista e di professore universitario, elaborando nuovi criteri per lo studio e il metodo del diritto pubblico e creando una nuova scuola di giuspubblicisti, che si facciano portatori e diffusori di quel metodo; dall’altro lato, contribuire, come giurista e come uomo politico, a definire le strutture portanti del nuovo Stato e fondare così una certa idea di Nazione. Vorrei dire ancora, che come studioso Orlando indicò un metodo da seguire, estratto dalla secolare esperienza del diritto privato, come politico indicò un modello costituzionale da elaborare su cui fondare la ragione dello Stato.
Il problema del metodo, quindi, insieme al concetto giuridico dello Stato, come personificazione astrattamente unitaria della nazione: questi sono i due motivi essenziali al centro della dottrina di Orlando.
4. La posizione di Orlando in tema di parlamentarismo si manifesta attraverso un saggio eloquentemente titolato: La decadenza del sistema parlamentare (1884), ma a ben vedere non molto severo nei confronti del parlamentarismo. È pur vero che Orlando condivide il carattere catastrofista della letteratura costituzionalistica antiparlamentare sulla validità delle istituzioni rappresentative, ma la conclusione del suo ragionare non è critica verso il governo parlamentare. Orlando, quindi, sostiene che la decadenza del sistema politico non è imputabile ai meccanismi incerti del parlamentarismo ma piuttosto nella “grande disgregazione sociale”: le cui cause sono determinate dalla “rottura del partito medio”, il quale poteva equilibrare gli estremi, e dalla “anarchia parlamentare”, in quanto basata su “formule vuote ed astratte”.
L’approccio cambia con la pubblicazione degli Studi giuridici del governo parlamentare (1886): Orlando si pone come obiettivo quello di provare l’identità di Rechtsstaat e governo parlamentare, ovvero il fondamento giuridico del governo parlamentare. L’errore commesso dai critici del parlamentarismo, secondo Orlando, è quello di avere fatto confusione dei criteri propri all’ordine giuridico. Da qui la necessità dell’adozione di un metodo giuridico, che sarà poi la cifra che contraddistinguerà la speculazione scientifica di Orlando. Conclusione degli Studi è (anche) la elaborazione della teoria giuridica del Governo di Gabinetto. La soluzione giuridica di Orlando è quella di un governo fondato sulla maggioranza parlamentare insieme a un forte ruolo, di equilibrio e di sostegno, del Capo dello Stato. Una forma di governo dualista, tributaria del modello inglese, inteso nel suo significato storico-tradizionale, che contempera l’equilibrio fra poteri, in particolare fra la prerogativa regia e la maggioranza parlamentare.
Due parole, però, conviene spenderle su altro tema, che è liminare al problema del parlamentarismo: la rappresentanza politica. Sul punto, Orlando elabora una tesi, che muove da due premesse: la convinzione che i termini popolo e Nazione debbano essere considerati sostanzialmente equivalenti, mentre invece «popolo e Stato vengano considerati le due facce, sinteticamente distinte, di un’idea essenzialmente unica, in base alla quale il popolo trova nello Stato la sua personalità giuridica e lo Stato trova nel popolo l’elemento materiale che lo costituisce». Orlando rifiuta l’idea di una delegazione di poteri da parte del popolo verso l’Assemblea legislativa; il popolo, allora, non è sovrano, non è titolare del potere costituente, non è quindi la fonte della sovranità. Questa è dello Stato, che si manifesta in più organi, così come la rappresentanza dello Stato risiede in più organi: con la conseguenza che tutti gli organi dello Stato debbono essere considerati rappresentativi.
Attraverso l’affermazione di una nozione organica dello Stato, Orlando finisce col rigettare la teoria della divisione dei poteri, in quanto viziata da un errore “sostanziale”, perché «contraddice a quel principio essenziale, che vede nello Stato un organismo, per quanto sui generis, in cui tutte le parti sono connesse, tutte le funzioni coordinate sino a fondersi tutte in una grande unità». E, altrettanto, Orlando non può che rigettare la sovranità popolare: sia perché considera lo Stato il solo sovrano, sia perché considera l’espressione popolo come equivalente della parola Stato, ed è nello Stato che il popolo trova la sua vera espressione come unità giuridica. Il dogma della sovranità dello Stato assumerà i toni di una ideologia politica in grado di servire le classi dominanti per giustificare e conservare il proprio potere politico. E sarà, quello della sovranità dello Stato con la negazione della divisione dei poteri e della sovranità popolare, uno degli accenti caratterizzanti la dottrina giuridica e politica fascista. Orlando fu un giurista liberale, sia pure un liberalismo di matrice tedesca, attento a non alterare l’equilibrio Stato-cittadino o pubblico-privato; garantendolo attraverso la concezione giuridica dello Stato, nonché dei rapporti tra questo e i soggetti privati.
5. Su altri temi avrei potuto “raccontare” l’Orlando pensiero: dal diritto di resistenza individuale e collettiva alla teoria giuridica delle guarantigie della libertà, dove si sviluppa quel progetto di “sistemazione rigorosamente giuridica” delle libertà. Oppure soffermarmi sugli ultimi suoi lavori, quando già quasi novantenne, si dedica a un innovativo e profetico tema La rivoluzione mondiale e il diritto. Ancora, la prolusione all’a.a. 1947-48 nella romana Sapienza e dedicata a La crisi del diritto internazionale e poi il lungo saggio del 1951 sullo Studio intorno alla forma di governo vigente in Italia secondo la Costituzione del 1948.
Certo, al di là del notevole interesse che suscitano gli scritti poc’anzi ricordati, c’è un filo rosso che li lega e li tiene insieme. È quello che era emerso subito, fin dal giovane Orlando della prolusione modenese, del costituzionalista che si fa teorico del diritto. Il quale, anche nel tramontare della sua attività scientifica, torna con insistenza sui vecchi motivi: i criteri tecnici, il metodo giuridico, il diritto privato, il diritto romano. Erano queste e rimangono queste le radici del suo pensiero costituzionalistico.
Tommaso Edoardo Frosini
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Napoli
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Napoli