Il diritto nella Letteratura

Dante e Manzoni nella prospettiva giuridica

Anche la giustizia è un guazzabuglio?
Dottoressa Eleonora Mazzoni, attrice, scrittrice e sceneggiatrice di cinema e televisione

Anche la giustizia è un guazzabuglio?

Con il libro del professor Gaetano Insolera confesso di essermi sentita a casa. Avendo dedicato negli ultimi anni molto tempo, energia e cura alla vita e al capolavoro del mio adorato Alessandro Manzoni, ho seguito con estremo interesse il rapporto che Insolera traccia tra opera manzoniana, così essenziale per il formarsi della nazione italiana, e riforma della giustizia penale nell’Italia appena fatta, con la necessità di una riflessione in chiave maggiormente liberale, meno autoritaria e prevaricante.

Uno dei grandi argomenti di Manzoni, si sa, è l’ingiustizia della giustizia, specialmente nei confronti della «gente di nessuno», di quella immensa folla di uomini comuni che passa «sulla terra, sulla sua terra, inosservata». Questo tema pervade tutto il romanzo ma ha un focus specifico nella Storia della colonna infame. Il «famoso processo che noi chiamiamo della Colonna infame, capolavoro d’autorità, di superstizione e di bestialità», come scriveva Ermes Visconti, aveva portato Guglielmo Piazza e Giacomo Mora ad essere torturati e uccisi, vittime innocenti di giudici che, pur sapendo di sbagliare, li sacrificarono perché assolvessero al loro ruolo di capri espiatori.

Analizzando passo passo il processo, Manzoni condannò non solo l’ignoranza dei tempi che credeva nella propagazione della peste tramite l’unzione o le leggi che autorizzavano l’utilizzo della tortura ma, soprattutto, quei giudici, perché trovarono i colpevoli di un delitto che non esisteva ma che si voleva esistesse. Se quei magistrati non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere. Potevano riconoscere l’innocenza dei due imputati. Ma non lo fecero. Anzi, si ingegnarono per non farlo e per non vedere l’ingiustizia che stavano per commettere. Infami furono loro, non la colonna innalzata a perenne memoria di quel reato immaginario. E non solo loro. Manzoni alla fine accusò anche gli scrittori, gli studiosi, gli intellettuali che per un secolo e mezzo, fino al 1776, quando Pietro Verri nel suo Osservazioni contro la tortura riesaminò i verbali di quel barbaro processo, andarono «l’uno dietro all’altro come le pecorelle di Dante», seguendo spensieratamente e immoralmente un errore, senza sviscerare i fatti. Per Manzoni «ogni potere ingiusto per far male agli uomini ha bisogno di cooperatori che rinunzino ad obbedire alla legge divina», come scrisse nelle sue Osservazioni. Per questo condannò con chiarezza quei burocrati del male per come avevano agito e non i tempi in cui essi avevano agito. Mentre chiamò martire il giovane Migliavacca. Che non confessò di essere un untore. Nonostante le torture. O le promesse di impunità. Un martire. Perché come un martire fu testimone della verità. E morì, affermandola.
Questa vicenda cupa e prepotentemente drammatica, che nella prima edizione de I promessi sposi era ancora dentro alla carne del romanzo, in quella definitiva del 1840-42 diventò un’opera a sé stante, anche se ne rappresentava il suo vero finale. I promessi sposi, infatti, terminava con un’illustrazione che ritraeva Renzo, Lucia, Agnese e la bambina, una famiglia felice, insomma. Subito dopo però, a seguire, nella stessa pagina, ecco un’altra immagine: una colonna con delle rovine attorno. Ovvero la colonna infame e la casa del presunto untore Giacomo Mora completamente distrutta. Come la sua famiglia. E sotto ancora un titolo. E l’inizio di un’altra vicenda. Cruda e disperata. La Storia della colonna infame.
Eppure, entrambe le opere di Manzoni subirono uno strano destino. Se, quando uscì, il romanzo ebbe un enorme successo popolare, con quaranta edizioni piratate, sessantamila copie clandestine, traduzione immediata in Francia e in Germania, dove fu recensito addirittura da Goethe, a poco a poco si istituzionalizzò. Ed entrò nell’obbligo scolastico. Non subito. La ricezione dell’opera manzoniana a scuola è stata in realtà piuttosto oscillante. All’inizio era solo consigliata, assieme a quelle di una caterva di altri autori che oggi potremmo definire minori, dal Monti al Pellico, passando per il Tommaseo, per intenderci. In un verbale del liceo Manzoni di Milano nel 1884 si legge, ad esempio, che un professore di lettere, tale Sinigaglia, escludeva tra i libri raccomandati I promessi sposi perché «non sempre accurato nelle forme grammaticali del linguaggio e per quella sprezzatura di stile che disavvezza i giovani da forme più classiche e forti che meglio si possono apprendere dagli antichi o dai loro imitatori».
Fu nei primi decenni del Novecento che Manzoni entrò in modo prepotente a scuola. E ci entrò con una funzione dichiaratamente educativa: doveva guidare i ragazzi verso i buoni sentimenti. Con la riforma Gentile la funzione educativa si rinsaldò del tutto, una manciata di anni prima che il Concordato introducesse l’insegnamento della religione cattolica. Manzoni nei suoi scritti si proponeva l’utile per scopo, il vero per oggetto e l’interessante per mezzo, non voleva certo educare ragazzi. Ai buoni sentimenti, poi. Per poterlo fare, dunque, l’opera fu mutilata dell’inquietudine che conteneva. Il romanzo venne edulcorato e purgato delle sue parti più pericolose, come la Monaca di Monza o il troppo difettoso Don Abbondio. Non solo. La Storia della colonna infame sparì dalla circolazione, cadendo in un oblio assoluto.
Tuttavia, entrambe le opere sopravvissero, recuperando la loro complessità e la loro forza nei tempi difficili. Durante la guerra, infatti, nelle carceri del fascismo, nei luoghi dell’esilio e del confino, durante il processo di liberazione nazionale, diventarono dei preziosi compagni di viaggio. E proprio perché era un libro adatto ai tempi di emergenza, nel 1954, quando ancora l’Italia stava ricostruendo se stessa dopo il secondo conflitto mondiale, la Lux Film decise di fare de I promessi sposi un film internazionale. Il progetto impegnò la produzione per nove anni. Venne scelto come regista Luchino Visconti, come sceneggiatori Suso Cecchi D’Amico e Giorgio Bassani. L’anno successivo Bassani consegnò il trattamento, Il pane e La peste, un racconto laico e moderno, “sparrocchiato”, con lo spettro della carestia che incombe, i lanzichenecchi che molestano Agnese e i personaggi scampati alla peste che rimandano a tutti i sopravvissuti delle sciagure della storia, quando il caos trionfa, esplode l’irrazionale e il mondo si capovolge. Fu fatto leggere ai maggiori critici e scrittori del momento, chiedendone il parere, da Emilio Cecchi ad Alberto Moravia, da Mario Soldati ad Archibald Colquhoun, che aveva appena tradotto il romanzo in inglese. Ed è affascinante vedere oggi come I Promessi Sposi furono letti dai più talentuosi pensatori di quel tempo, chiamati a decidere su cosa valesse la pena puntare, e su cosa invece si potesse sorvolare, tutti ancora prigionieri del dualismo tra interpretazione marxista da una parte e lettura cattolica dall’altra. Il film poi non si fece. Il Gattopardo era costato troppo, per la Lux non erano più i tempi giusti per imbarcarsi in un progetto così ambizioso. Anche il tentativo da parte di Luigi Malerba di fare un film per la Titanus sulla Storia della colonna infame andò a vuoto: pare che lo scrittore emiliano fosse nella lista nera di Andreotti.
È solo dopo il centenario del 1973 che la Storia della colonna infame riemerse e cominciò a dialogare con I promessi sposi, eliminando qualsiasi tentazione di interpretazione idilliaca. Anche grazie ad alcuni dei più importanti scrittori di quel periodo, come Calvino e, soprattutto Leonardo Sciascia. Quest’ultimo mise al centro del suo discorso il problema della giustizia in Manzoni, con l’abuso di potere, i giudizi iniqui e le «passioni perverse» che si celano dietro la ragion di Stato. Sciascia accostò i giudici del processo agli untori, senza mezzi termini, agli aguzzini nazisti. Che importa che fossero considerati onesti e retti. Agirono come burocrati del Male.
A tale riguardo mi ha molto colpito l’idea di Gaetano Insolera – a cui, essendo fuori dall’area dei miei studi, non avevo mai pensato. Il depotenziamento a lungo operato su I promessi sposi e l’oblio assoluto in cui per quasi un secolo era caduta la Storia della colonna infame va forse di pari passo con una perdurante disattenzione in Italia per la giustizia penale e con la sopravvivenza di un codice di procedura inquisitorio. D’altronde lo stesso Sciascia assicurava che la nostra storia sia civile sia letteraria è piena di trascuratezze, omissioni e disguidi. Nell’ultima parte del suo libro Insolera mette in guardia: quell’atteggiamento, così chiaro nel processo del 1630, che, invece di portare a galla la verità, sprofonda in un girone infernale di abusi ed estorsioni di false confessioni, si può riproporre ancora oggi. Da Mani pulite, con l’utilizzo della carcerazione preventiva nei confronti di chi non è avvezzo a un carcere, ai collaboratori di giustizia, a cui vengono proposti benefici e, in fondo, l’impunità, il rischio di un’ingiustizia della giustizia fa sempre capolino. Ma, come i guai sono destinati a tornare nella vita degli uomini, senza che gli uomini ne abbiano pieno dominio, le atrocità che gli uomini commettono contro altri uomini sono molto spesso evitabili. Basta operare una sterzata verso il bene. Sempre in nostro pieno possesso e per questo sempre realizzabile.
Dottoressa Eleonora Mazzoni
Direttrice Artistica del
Festival Culturale Caterina Sforza di Forlì