Il diritto nella Letteratura

Dante e Manzoni nella prospettiva giuridica

Per sete di giustizia
Marco Veglia, Professore di Letteratura italiana e Letteratura italiana medievale nell’Università degli Studi di Bologna

Per sete di giustizia

Fu merito particolare di Ovidio Capitani, in un saggio dedicato a Dante e la società comunale, aver messo nel dovuto spicco una prospettiva, che egli definiva «funzionalismo globale». Dinanzi alla vita politica fiorentina, dinanzi alle istituzioni che la governavano e dinanzi alle parti politiche che ne esprimevano l’interna dialettica, così accesa e violenta da mutarsi come sappiamo in guerra civile (quanto meno a partire dal primo maggio del 1300: ciò che puntualmente ricorda Ciacco in Inf. VI 63-64), Dante guardava a un orizzonte superiore, che trascendeva le parti e le istituzioni nell’atto stesso che le giustificava (e le giustificava a patto, s’intende, di consapevolmente trascenderle). Le vicissitudini della sua vita politica, specie nella sua fase apicale (che decorre dal maggio 1300 all’autunno del 1301, quando lasciò Firenze con Maso Minerbetti e Corazza da Signa, per recarsi presso Bonifacio VIII in Roma e non più far ritorno «sovra ’l bel fiume d’Arno ala gran villa»: Inf. XXIII 95), confermano questa disposizione e questo abito del suo pensiero. La crisi di Firenze, evocata in Par. XV-XVI, ancorata poi da Cacciaguida al suo destino di esule in Par. XVII, tutta si fonda sulla coscienza che la mutazione rapida e inarrestabile della società fiorentina non potesse essere governata in alcun modo dalle vecchie istituzioni politiche cittadine. Quanto più la realtà si estendeva e si articolava, quanto più si ibridava di culture e di popoli, tanto più, a legarla e dominarla occorreva l’Impero universale, diversamente ma coerentemente concepito tra Convivio, De vulgari eloquentia, Commedia e Monarchia. L’essenzialità di questi percorsi, così rapidamente enunciati, viene a ribadire di per sé la centralità della dimensione giuridica: essa è una forma costitutiva del pensiero di Dante, il quale, a specchio del «funzionalismo globale» trattato da Ovidio Capitani, andò «esurïendo sempre quanto è giusto» (Purg. XXIV 154).

A queste osservazioni preliminari è bene forse riallacciarsi per cogliere, sia pure in sintesi, il pregio del libro dantesco di Giuseppe Morbidelli, che si ferma, con garbo e dottrina, su La dimensione giuridica in Dante Alighieri (Modena, Mucchi, 2022): non, si badi subito, in questa o in quella opera, ma proprio in lui, in Dante (a dimostrazione che la dimensione giuridica è, nel poeta, un’antropologa della giustizia, insomma un tratto distintivo del suo più autentico volto). Ed ecco allora che il lettore si imbatte – è questo il “primo passo” del saggio di Morbidelli – nella considerazione di La cultura giuridica nella formazione di Dante, riprendendo una lunga tradizione di studi, che per la contemporaneità a noi più vicina va riportata almeno ad Hans Kelsen e al suo volume, di recente riproposto per il centenario dantesco, su Lo Stato in Dante. Una teologia politica per l’Impero. Su questa via, a titolo d’esempio, mi pare che vadano collocati i capitoli 4 e 5 di Morbidelli, che sembrano suggerire il centro ideale del saggio, dedicati rispettivamente a Dei molteplici segni di giuridicità che informano l’opera di Dante e a una compiuta Definizione e fine del diritto. Giusta, secondo il «funzionalismo globale» che abbiamo ormai imparato a conoscere, è soltanto la politica che mira al bene supremo della città, rispetto al quale soltanto si comprende la funzione e il limite delle istituzioni, della stessa vita politica e degli uomini che la rappresentano. Non possiamo pertanto stupirci che a un simile orizzonte, per la sua medesima centralità, vada riconducendosi la definizione stessa del diritto: «Quicunque praeterea bonum rei publice intendit, finem iuris intendit». Con una immediata conseguenza: «Quodque ita sequatur sic ostenditur: ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio, que servata hominum servat sotietatem, et corrupta corrumpit» (Mn II v 1). La giustizia non è, quindi, un’idea astratta, ma una «regula directiva vite» (Mn I xiv 5). Per questo, Morbidelli prosegue la sua esposizione trattando della Giustizia divina e della sua proiezione nel diritto degli uomini. La giustizia divina non è soltanto sottesa al diritto positivo, ma ne diviene la condizione di esistenza (in altre parole, il fatto che vi sia una giustizia di Dio, che si legge nell’ordine della natura, rende non solo comprensibile, ma legittimo e necessario pensare al diritto). La natura naturans, che è Dio, creando la natura naturata, vi infonde la sua suprema giustizia (l’aequitas rudis è premessa e condizione dell’aequitas constituta). «Propter quod patet quod natura ordinat res cum respectu suarum facultatum, qui respectus est fundamentum iuris in rebus a natura positum. Ex quo sequitur quod ordo naturalis in rebus absque iure servari non possit, cum inseparabiliter iuris fundamentum ordini sit annexum: necesse igitur est ordinem de iure servari» (Mn II vi 3). Solo interpretando correttamente, alla luce della giustizia divina, l’ordine naturale («Cotanto è giusto quanto a lei consuona»: Par. XIX 88), se ne può tradurre l’impronta nell’ordine giuridico: «Et iterum ex hoc sequitur quod ius in rebus nichil est aliud quam similitudo divine voluntatis; unde fit quod quicquid divine voluntati non consonat, ipsum ius esse non possit, et quicquid divine voluntati est consonum, ius ipsum sit» (Mn II ii 5). La iurisdictio, pertanto, e qui non possiamo che richiamarci al grande libro di Pietro Costa, «est potestas cum necessitate iuris reddendi aequitatisquae statuendae». L’Imperatore (sul quale si affila il pensiero di Dante dal Convivio alla Commedia) è da Morbidelli identificato e tratteggiato, nelle sue funzioni costituzionali, con estrema puntualità. Ma anche in questo caso il lettore di Dante avverte, vorrei dire per gratitudine verso le pagine che la sollecitano, la necessità di integrare questa funzione imperiale con ciò che, nella Monarchia e nella Commedia, la precede e prepara. La recta dilectio è il giusto amore che, nell’Imperatore, viene portato verso l’umanità, verso il bene e la felicitas hominum. Per instaurare la giustizia, non è sufficiente conoscerne la necessità, ma è doveroso amarla e desiderarla, con quell’«amor che drittamente spira» (Par. XV 2) che, nella Commedia, è testimoniato e conosciuto attraverso Beatrice e che, per suo tramite, conduce il poeta sino a Dio. E se Morbidelli estende e allarga, articola e approfondisce il suo discorso, fermandosi su Bartolo da Sassoferrato, sulle fonti del diritto, sulla tirannide, sulla nozione della libertà, sugli obblighi dell’imperatore, è nondimeno la chiusa del suo saggio (Messaggi giuridici “non perituri” tramandati da Dante) che lascia affiorare l’ethos dello studioso, il «lungo studio» e il «grande amore» per il poeta della Commedia, meditato e rivissuto nella sua perenne lezione di giustizia e di umanità. La voce e l’ordine della mente di Dante lasciano nei lettori affiorare e vi lasciano attecchire un’istanza suprema di giustizia, che giunge fino al nostro presente. È questa, tutto sommato, la premessa spirituale del saggio, che si manifesta coerentemente nella sua conclusione: per comprendere Dante non è sufficiente spiegarlo, ma è necessario lasciarsene interpellare. Come in effetti, dalla prima all’ultima pagina, ha fatto Giuseppe Morbidelli.
Marco Veglia
Professore di Letteratura italiana e Letteratura italiana medievale
dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna