Il diritto nella Letteratura

Dante e Manzoni nella prospettiva giuridica

Il diritto in Dante Alighieri
Giuseppe Morbidelli, Emerito di Diritto amministrativo nella Sapienza - Università di Roma

Il diritto in Dante Alighieri

Le basi e le radici della cultura giuridica di Dante

Hans Kelsen in un suo studio giovanile risalente al 1905 ebbe a qualificare la Monarchia come un’opera di diritto pubblico e, di rimando, definì Dante uno studioso di diritto pubblico.

La tesi di Kelsen può destare sorpresa. Tutti sappiamo ad esempio che Dante aveva approfondito gli studi filosofici. Aveva infatti frequentato le “disputazioni delli filosofanti”, cioè gli studi del convento francescano di Santa Croce e quello domenicano di Santa Maria Novella. Tanto che Giovanni Gentile ha scritto che «in Dante la filosofia non è il particolare e l’accessorio ma il generale, l’insieme, il principale». Come pure aveva approfondito gli studi teologici, in particolare attraverso Agostino e Tommaso d’Aquino. Ciò risulta con chiarezza anche da tanti versi della Commedia: basti pensare alla trattazione della Incarnazione e della Redenzione (Par. VII) o del mistero della Trinità (Par. X) o delle gerarchie angeliche (Par. XXVIII-XXIX).

Di contro non risulta che Dante abbia seguito specifici studi giuridici. È indubbio però che nel suo percorso formativo e in genere nel suo percorso di vita non sono mancati contatti e interlocuzioni con il mondo giuridico, sì da assimilarne nozioni e concetti. Basti pensare al suo essere stato allievo di Brunetto Latini, notaio e magistrato, nonché al suo intenso rapporto con Cino da Pistoia, poeta ma anche giurista insigne considerato il maestro del grandissimo Bartolo da Sassoferrato. Aggiungasi sia l’esperienza pratica di Dante nel governo di Firenze e i plurimi ruoli ivi assunti, sino a far parte dei Priori, all’epoca massimo organismo di governo della città, sia le sue personali vicende giudiziarie che di necessità l’hanno indotto a misurarsi con la sfera del diritto.

Ma soprattutto rilevano le già ricordate conoscenze delle dottrine filosofiche e teologiche confermate dal Boccaccio che nel suo Trattatello in laude di Dante scriveva testualmente: «E acciocché niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle profondità altissime della teologia con acuto ingegno si mise». E all’epoca vi era feconda interazione tra pensiero teologico, pensiero filosofico e pensiero giuridico. Altrettanto “mescolate” sono teologia e diritto, sia per il ruolo primario che avevano nel sistema giuridico dell’epoca le leggi divine, sia per l’enorme influsso avuto dalla Chiesa e dal suo patrimonio religioso e morale sulla vita del diritto, sia per il connubio tra diritto canonico e diritto civile, del che è simbolo e insieme sintomo evidente il precetto tradizionale per cui i giuristi dovevano essere versati in utroque iure. Tutto questo conduce ancora una volta a dar conto del perché il diritto fosse tutt’altro che alieno dalla speculazione dantesca.

Il che è ben comprensibile ove si consideri l’unità di ispirazione che in quel periodo caratterizzava le manifestazioni più elevate del pensiero: attratto e innervato dai grandi filosofi greci, dalla cultura latina, dalla altissima speculazione dei teologi. Ed invero, come ebbe a rilevare il grande storico delle istituzioni, Ernst H. Kantorowicz, Dante «citava con precisione i testi di diritto romano e canonico, utilizzando anche la Glossa ordinaria di Accursio». Di qui la conclusione secondo cui Dante non può non essere considerato anche un giurista, fondata appunto sul rilievo che il diritto è una delle basi del pensiero medievale, nonché sul setaccio delle tante componenti giuridiche e dunque dei “precipitati” della scienza giuridica che attraversano oltre che la Monarchia e il Convivio, la Commedia, talune epistole e financo canzoni.

Del resto, il tema dei contenuti e dei limiti del potere è un tema essenzialmente giuridico, e sono infatti giuridiche le parole chiave dell’ordito argomentativo di Dante quali imperium, pactum, dominium, mandatus, universitas, iustitia, dominus, civitas, communitas, corpus, collegium. Ma in fondo l’“etichettatura” come giurista o no interessa fino ad un certo punto. Quello che rileva e che è incontestato è che se la Monarchia non può essere considerata in tutto e per tutto un testo giuridico, essa è però anche un testo giuridico in quanto – come è stato scritto da L. Buffoni –, «attraversato dal diritto nei problemi che pone e nel modo in cui li pone» tanto che uno dei nostri maggiori storici del diritto come Francesco Calasso ha scritto che l’ideale della Monarchia universale propugnato da Dante «fa parte della storia del diritto».

La definizione di diritto secondo Dante

Il presupposto dei ragionamenti giuridici di Dante, e insieme la stessa ispirazione di fondo della sua teorica giuridico-politica, riposano sul convincimento secondo cui la pacifica convivenza, il non sopruso, la libertà, dipendono da (e richiedono) regole giuridiche, ovvero precetti che disciplinano sia direttamente le varie istituzioni (Impero, Regni, Comuni, Università, ecc.), sia i rapporti tra queste e gli individui che le compongono. Di qui la conclusione in ordine all’essenzialità del diritto. La rilevanza primaria nel diritto, del resto, è deducibile a più riprese anche dalla Commedia, ove l’icasticità dei versi rende ancor più incisivo il suo pensiero. Si pensi appunto al sommo rilievo che assegna sia a chi detta tali precetti sia a chi li interpreta, come si ricava dai versi dedicati soprattutto a Giustiniano (Par., VI, 12) e a Graziano, Maestro del diritto canonico (Par., X, 103 e ss.), collocati ed esaltati nel Paradiso.

Ed invero il valore fondante del diritto nella humana societas è espresso nella celebre definizione scolpita nella Monarchia (II, V, 1): «Il diritto è una proporzione reale e personale nella relazione tra uomo e uomo, la quale conservata conserva la società, e corrotta la corrompe». Si tratta di una definizione che è stata considerata da Guido Fassò «tra le tante che si è tentato di dare, forse la più felice e la più perfetta», in quanto, essa centra la “cifra” del diritto, ovvero la sua capacità intrinseca di recare ordine e pace. Nel senso che Dante non si ferma ad una definizione pur elegante, ma ne delinea lo svolgimento dato che ravvisa nel diritto lo strumento per il raggiungimento del bene comune, che si invera soprattutto nella pace e nell’ordine. Tale definizione esprime altresì il principio per cui esso è lo strumento essenziale per la stessa esistenza di una comunità, perché presuppone un rapporto con gli altri. Ma è altrettanto significativa, sempre tratta dalla Monarchia, l’affermazione per cui il fondamento del diritto è connesso inseparabilmente all’ordine, del quale è nello stesso tempo il fine. Sicché la definizione finisce per essere anche un luogo geometrico di incontro di tutti i capisaldi del pensiero giuridico di Dante, che vanno dalle finalità del diritto a quelle dell’Impero (e al carattere necessario di entrambi), dalla superiorità della legge divina al valore “forte” del bene comune.

La finalità del diritto e il ruolo dell’Imperatore per darvi attuazione.

L
a pervasività e l’esaltazione del diritto e quindi della giustizia in cui il diritto si invera e si esprime, e con essa dei precetti che alla giustizia si rifanno, si comprendono con chiarezza attraverso le riflessioni e le conclusioni in ordine al ruolo costituzionale dell’Imperatore. La giustizia è un fine precipuo dell’Imperatore, il quale è dominus mundi ma anche difensore della giustizia. Sicché l’assenza o l’inerzia dell’Imperatore fa venir meno l’affermazione della giustizia e di rimando la pace.

La teorica di Dante in ordine alle funzioni “costituzionali” dell’Imperatore è così incombente e sentita che emerge a più riprese anche nella Commedia. Così la critica verso l’eccesso di produzione legislativa quale si ricava dal famoso verso dedicato a Giustiniano («trassi il troppo e il vano»: Par., VI, 12), è anche una difesa dell’ordine e della pace perché il troppo e il vano sono fonte di confusione e incertezze interpretative e dunque forieri di conflitti. Come pure è ravvisabile la censura verso le continue modifiche legislative che attentano alla stabilità del diritto, laddove scrive «che fai tanto sottili provvedimenti, ch’a mezzo novembre, non giunge quel che tu d’ottobre fili. Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume hai tu mutato e rinovate membre!» (Purg., VI, 142-147). La instabilità normativa, infatti, costituisce turbativa della pace e della tranquillità.

Invero la funzione essenziale dell’Impero trova la sua ragion d’essere nel fatto che esso ha le sue radici nella legge divina; sicché è lo strumento principale a disposizione dell’Imperatore per raggiungere le finalità di pace e di ordine così appassionatamente e reiteratamente invocate da Dante.

Questa è anzi una delle ragioni per cui Dante, a più riprese, contrasta la tesi ierocratica del primato anche in temporalibus del Pontefice. L’immagine dei due soli evocata da Dante anche in Purg. XVI, 108 si contrappone infatti alla metafora del sole e della luna, dovuta ad Innocenzo III, volta a rappresentare che l’Imperatore vive alla luce riflessa del Pontefice, e prefigura invece un rapporto di distinzione e di indipendenza reciproca in quanto le rispettive investiture derivano direttamente da Dio, sicché non vi può essere subordinazione. Ferma restando l’esigenza di una continua collaborazione fra le due autorità per quanto operanti ciascuna nell’ambito dell’area di sua competenza, dato che sono inevitabili i punti di contatto fra i poteri spirituali e quelli temporali considerato se non altro che l’Imperatore deve garantire l’osservanza delle leggi divine.

Ma soprattutto il dato che interessa mettere in evidenza è che la repulsa del potere temporale dei pontefici non nasceva solo dal malcostume e da quant’altro di disdicevole vedeva annidarsi nelle corti pontificie, ma anche e soprattutto dal fatto che l’esercizio da parte del Papa di poteri temporali esorbitanti ed impropri metteva a repentaglio le funzioni “costituzionali” dell’Impero, deputato ad “ordinare” tutta la comunità cristiana.

Ancora delle osmosi tra Impero e diritto

Va altresì tenuto presente che la tesi di Dante per cui l’Impero è necessario si raccorda con il principio aristotelico della reductio ad unum e dunque con la visione dell’umanità come universitas garantita da unum ius. L’Impero risponde appunto al principio di unità e con esso di ordine, che è un sentire costante del pensiero medievale: «[…]. È così come è essenziale per la pace nel mondo che vi domini la giustizia, a loro volta sono essenziali la presenza e l’osservanza di tutta una serie di regole della convivenza sociale, sì che si abbia un popolo «giusto e sano» (Par., XXXI, 38) e non è tale dove regna discordia e la tensione: «ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione per che l’ha tanta discordia assalita» (Inf., VI, 60 ss.). Il valore fondamentale dell’ordine e della pace va poi a declinarsi in concreto in una serie di regole ordinanti la vita della comunità, regole cioè che stabiliscono ciò che si può fare e ciò che non si può fare: dunque regole giuridiche. Sicché, l’Impero è necessario perché assicura il diritto, anzi il primato del diritto, che a sua volta è garanzia di ordine e di pace.

Di qui il rapporto di interazione e di osmosi tra Impero, giustizia e diritto, il tutto finalizzato al perseguimento di valori superiori di continuo richiamati quali pace e tranquillitas (che potremmo definire ordine pubblico).

Primazia delle leggi divine e gerarchia delle fonti

Le riflessioni che Dante ripercorre nella Monarchia investono anche le fonti di produzione del diritto e i relativi rapporti.

Sulla scia degli insegnamenti di Tommaso d’Aquino al massimo livello v’è la legge eterna rivelata da Dio. La quale si dipana in più testi strutturati secondo una vera e propria gerarchia. Prima vengono il Vecchio e il Nuovo Testamento, che coincidono con il piano stesso con cui Dio governa le cose.Poi ci sono le deliberazioni conciliari e gli scritti dei padri e dottori della Chiesa. Indi le decretali pontificie. Ad un livello inferiore sta la legge naturale posta dagli uomini, ma in attuazione dalla volontà divina, in quanto si risolve nello sviluppo naturale della legge eterna ad opera della ragione.

Infine, ad un livello ancora inferiore si pone il c.d. ius humanum espressione della voluntas principis o dei mores, e che appunto poteva consistere nelle leggi (statuti, editti, decreti, rescritti, etc.) o nelle consuetudini. Lo ius humanum è dunque la legge formulata dagli uomini secondo la quale vengono stabiliti in modo dettagliato gli obblighi contenuti nella legge di natura, sono dettate secondo le contingenze di tempi, di luoghi, di situazioni. Peraltro, il diritto deve sempre essere coerente con le norme superiori, con la conseguenza che se contraddice al diritto superiore non è diritto. Su questo l’insegnamento di San Tommaso è categorico: se una legge positiva è in disaccordo con la legge naturale, allora essa non è più una legge, ma una corruzione della legge: «Le leggi giuridiche ingiuste sono “violenze piuttosto che leggi”».

La tirannide come conseguenza del mancato rispetto delle leggi divine e dell’inadempienza dell’Imperatore ai suoi doveri

Non solo. Lo spregio delle leggi sia di discendenza divina sia di natura costituisce l’humus per l’insorgere di regimi tirannici.

Anche questa è una riflessione che impinge nella teoria costituzionale, in quanto propone la regola del rapporto eziologico tra una situazione di larga inosservanza delle leggi (in primis, – come si è visto – leggi divine), e l’insorgere di una tirannia che si ha quando «publica iura non ad comunem utilitatem secuntur, sed ad propriam retorquere conantur» (Mon., III, IV, 10). La tesi ha la sua base non solo nelle esperienze pratiche dell’epoca che tante volte Dante ha visto, ha stigmatizzato e ha vissuto in prima persona, ma anche nella disapplicazione dell’obbligo dell’Imperatore di far valere le leggi divine e della ragione. La tirannide, che comporta il diniego di giustizia e la violazione della legge divina e di quella naturale, è una conseguenza dell’assenza di un potere imperiale effettivo, come appunto ebbe poi a sottolineare Bartolo secondo cui la causa prima della tirannide va individuata «nel venir meno della giurisdizione universale del dominus mundi, unica garante della pace e del diritto, e ciò in perfetta simbiosi con il pensiero di Dante. In altre parole, la tirannide consegue all’inerzia dell’Imperatore rispetto al suo obbligo giuridico di intervenire a garanzia di quell’ordine universale quale è deputato. La concezione dell’Imperatore come restauratore della pace e nel contempo la natura divina del diritto, come è la sua investitura, fa sì che laddove vi sia discordia e tirannia, e dunque spregio dei precetti di fonte divina, v’è un preciso dovere giuridico a che l’Imperatore scenda in campo facendo uso della forza se necessario. L’Imperatore è titolare di una supremazia finalizzata a guidare il genere umano alla felicità temporale, fine che persegue proprio nel «dare le leggi» in quanto funzionale alla libertà e alla pace. Su questo Dante è categorico anche nella Commedia (Purg., VI, 88 ss.) quando scrive a cosa è servito che Giustiniano abbia restaurato il freno della legge con il Corpus iuris quando alla sella del cavallo manca il cavaliere (metafora che troviamo anche nel Convivio, IV, IX, 8-10), ma analoga è la ratio del verso «le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» (Purg., XVI, 97). Ancor più significative le rampogne avverso «Alberto Tedesco» ovvero l’Imperatore Alberto d’Asburgo «ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni» (Purg., VI, 97-99) e il di lui padre Rodolfo d’Asburgo «che potea sanar le piaghe c’hanno Italia morta, sì che tardi per altro si ricrea» (Purg., VII, 94-96), e aveva così «negletto ciò che far dovea» (Purg., VII, 92).

La libertà come proiezione sulle persone dei governi “retti”

Alla luce di quanto sopra emergono con chiarezza il perimetro e lo spessore del concetto di libertà che Dante tanto spesso evoca nella Monarchia: in quanto è la condizione di base perché il genere umano si trovi nel suo stato migliore, concetto che del resto pervade anche la Commedia. Celebre il passo su Catone Uticense: «libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta» (Purg., I, 71 e 72): gesto di libertà che Dante richiama anche nella Monarchia, (II, V, 15) «rigorosissimo tutore della libertà» e nel Convivio (III, V, 12 e IV, V, 16-17). È chiaro che non possiamo intendere la libertà nel senso attuale in tutte le sue declinazioni (basti solo pensare alla libertà religiosa), né tanto meno allo spettro di garanzie quali oggi assistono i vari diritti di libertà. La libertà per Dante è allineata all’insegnamento tomistico per cui «la vera libertà non è una pretesa all’autodeterminazione individuale ma solo quella di potere agire nel senso dovuto in conseguenza di un ordine universale stabilito da Dio e i principi di giustizia che questo pone» (teniamo presente che per Catone Cesare era un tiranno, il quale pertanto non assicurava per definizione la giustizia). Nella sostanza libertà nella dottrina dantesca è legata in endiadi a pax e tranquillitas. Ciò comporta la presenza di un regime improntato non agli interessi egoistici dei reggitori, ma al bene comune e di rimando il bene comune lo si ha appunto se si seguono le regole di giustizia e non c’è pertanto “mala condotta”, la quale invece conduce alla tirannia e con essa coincide. Libertà è dunque la proiezione nell’individuo del diritto: è, cioè, la possibilità di eseguire ciò che la ragione vede giusto perché coincide con il diritto naturale e che invece la tirannide conculca.

Sicché, se da un lato la libertà è una condizione dell’uomo che «dipende da sé e non da altro» (Mon., I, XII, 8), dall’altro viene a configurarsi, in quanto espressione di un diritto superiore, anche come un limite al potere pubblico.

Vi è dunque nel percorso argomentativo di Dante una sorta di circolarità virtuosa che parte dalle leggi divine e dalle leggi di natura, passa all’Imperatore che è tale per trascendenza divina e che, in quanto executor iustitiae, le diffonde, le difende e le applica, e si conclude nella pacifica convivenza che è il presupposto primo della libertà, la quale a sua volta scaturisce dall’osservanza della legge giusta.

Dei lasciti “imperituri” della costruzione giuridico-politica di Dante

Sappiamo bene che l’idea di Dante era un’idea destinata ad essere perdente. Però ha lasciato segni non privi di sviluppi. In primo luogo, perché dalla ricostruzione della figura dell’Imperatore emerge con nitidezza la tesi della sovranità come esigenza indefettibile, perché appunto solo essa, attraverso il monopolio della forza, il primato delle sue leggi e la sovraordinazione su ogni altro soggetto (persona fisica e giuridica) può assicurare la pace.

In secondo luogo, la presenza di fonti dotate di primazia come le leggi divine e le leggi naturali e in quanto tali inderogabili anche da parte del Monarca fa sì, come ebbe a rilevare Kelsen, che sia ravvisabile una forma di governo limitato nel senso che l’esercizio del potere è vincolato giuridicamente, e dunque non del tutto legibus solutus, come pure tralatiziamente tante volte si afferma. Tanto che viene teorizzato il diritto di resistenza avverso le leggi umane non coerenti con le leggi divine.

Infine, l’idea di un ordine universale, che pertanto sappia anche imporsi in nome di valori altrettanto universali, è sempre immanente, e difatti continuamente ribadita in sede filosofica e politica. Basti solo richiamare la notissima teorica di Kant sulla pace perpetua, nonché lo stesso Kelsen e la sua proposta di una comunità mondiale soggetta ad uno stesso diritto.

Tutte idee e movimenti di pensiero che hanno condotto all’istituzione prima della Società delle Nazioni e poi delle Nazioni Unite e alla approvazione della Carta dei Diritti del 1948, che tendono a proporre un unico ius reggitore, ius a sua volta avente come fine la pace e la sicurezza e con essa la tranquillitas degli uomini.

È vero che la società degli Stati è ben lungi dall’essere tale in quanto non vi sono meccanismi incontroversi e dotati di effettività onde garantire l’attuazione coercitiva di quei valori, o comunque sono del tutto parziali, ma resta il fatto che taluni principi universali si stanno affermando, quali ad esempio l’esistenza di obblighi erga omnes, l’impatto di norme di jus cogens, i divieti di aggressione, genocidio, discriminazione razziale e di crimini contro l’umanità. Si può pertanto dire che seppure in forme e strumenti del tutto diversi, il precipitato dell’ideale universalistico di Dante è sempre presente.

Come è del tutto attuale l’idea di una legge naturale e della ragione, che prevale sulle leggi positive. Il che vale sia a fronte di violazioni clamorose dei principi umanitari che consentono reazioni a livello internazionale, sia a livello interno per reagire ad ogni misura legislativa che si riveli in contrasto con i principi di ragione quali si ricavano anche dalla storia, dalla tradizione e da tutto un tessuto di valori e di principi di cui le odierne Costituzioni sono innervate, alla stessa stregua del principio affermato nella dottrina giuridica medievale che considerava «tamquam non essent» le leggi non rispettose dei principi superiori. È innegabile che queste considerazioni finali possono essere interpretate come frutto di una visione romantica se non di una forzatura, come del resto ve ne sono state tante e su svariati profili dell’opera dell’Alighieri. Ma è altrettanto innegabile che l’estrema, anzi straordinaria, autorevolezza di Dante, il fascino e l’influsso che tuttora esercita, dimostrato dall’essere continuamente oggetto di studi e riflessioni in tutto il mondo, inducono ad una lettura che contribuisca a dar conto della perennità di una serie di principi e valori la cui essenzialità e vitalità non solo riposa su costituzioni e altri documenti formali, ma traluce altresì dalla storia e dalle testimonianze dei grandi genî che ci hanno preceduto e illuminato.
Giuseppe Morbidelli
Presidente della Fondazione Cesifin – Alberto Predieri