Il diritto nella Letteratura

Dante e Manzoni nella prospettiva giuridica

La giustizia penale di Alessandro Manzoni
Prof. Gaetano Insolera, già Ordinario di Diritto penale all'Alma Mater - Università degli Studi di Bologna

La giustizia penale di Alessandro Manzoni

Le due storie – quella della unificazione del diritto e della giustizia penale e quella dell’opera narrativa e storica di Manzoni – si rispecchiano nell’intento di dotare il nuovo regno di una lingua sola e nella denuncia delle abiezioni che incombono sull’esercizio dei castighi, del rischio che, anche in esso, si manifestino prevaricazioni e abusi del più forte.

Così la figura di Alessandro Manzoni si colloca nel contesto di quella penalistica classica e civile che tradusse, sistematizzò e diede conseguenza alle idee sulla legislazione del fortunato pamphlet di Cesare Beccaria. Questo con una originalità dell’intreccio tra finzione letteraria e opera storica che trova, nella intima convinzione morale dell’autore quanto alla profonda ingiustizia prodotta dai rapporti di forza e di potere, un contrappeso rispetto all’astrattezza del paradigma classico: un realismo che soddisfa una necessità colta anche dalla sociologia criminale, quanto meno nell’orizzonte metodologico.

Dalla fine dell’Ottocento il recepimento del pensiero di Manzoni avvenne tuttavia con l’“inabissamento” della Storia della Colonna Infame. Una vicenda che cogliamo esaminando l’inserimento del romanzo nei programmi scolastici. E le cose non cambiarono in modo durevole dopo la caduta del fascismo. Infatti, la ricezione de I promessi sposi fu ostacolata anche da un approccio marxista che, dopo l’uscita dei Quaderni del carcere, trovò conferma nelle considerazioni pesantemente negative di Gramsci in Letteratura e vita nazionale, così da confinarlo in un genere cattolico, aristocratico ed elitario, lontano da una considerazione del popolo non limitata ad una, spesso irridente, benevolenza per la sua naiveté e distante pure da esempi stranieri di grande letteratura nazional-popolare. In breve, al cattolicesimo oscurantista, come alla ortodossia marxista, non dispiaceva l’immagine di uno scrittore reazionario.
Progressivamente, quella lettura cede però il passo ad una critica capace di mettere in luce, accanto all’importanza e qualità letteraria del romanzo, il suo complesso retroterra culturale. Mi preme ricordare la passione di un grande intellettuale “libero” – Leonardo Sciascia – che, a differenza di altri, non correva il rischio di apostasia per questa revisione. Molte le occasioni, nei suoi scritti, nelle quali emerge il confronto col Manzoni in termini esplicitamente positivi.
L’idea che la Storia della colonna infame costituisca la chiave di lettura per cogliere il pensiero manzoniano sulla giustizia penale ha preso sempre più piede. In tal senso, nella scelta fatta con la pubblicazione della “Quarantana” si può anzitutto cogliere la mancata soluzione di continuità tra le due stagioni di Alessandro Manzoni. Quella vissuta nel fervore dell’illuminismo lombardo e quella, successiva al 1810, della conversione e dell’approdo ad una professione di fede, per altro accompagnata da note sfaccettature. Questa la strada che consente di superare definitivamente la lettura scolastica, istituzionale e didattica de I promessi sposi: non più amputato, censurato nella sua conclusione.
Possiamo dire che finalmente si è stabilito il collegamento stretto tra il romanzo e la Storia della colonna infame, nella quale ritroviamo, attraverso la cruda cronaca del processo, i grandi temi del romanzo: il libero arbitrio e la responsabilità individuale. Questo per porre l’accento, tra i tanti punti di contatto, su quelli che più ci consentono di evidenziare la capacità dell’autore di individuare tendenze del male che prendono forma nei modi di praticare la giustizia criminale. Modi che ci appariranno tali da perpetuarsi nei tempi, fino a realtà attuali. Essi hanno a che fare con un’idea di Manzoni: quella della giustizia che, nelle mani degli uomini, può assumerne tutte le imperfezioni – passioni, ferocia, ignavia, falsità. Storture, con la tentazione – questa sì demoniaca – di usarla per ottenere, con il processo criminale, una verità che corrisponda a quella che si vuole comunque trovare, perché tale deve essere: per ragioni che hanno a che fare con i potenti, compiacendoli e ammansendo la forza bruta della folla, con l’assecondarne le superstizioni. Una tentazione che non incontra limiti nel dare sofferenza agli sventurati caduti tra gli artigli della giustizia penale.
Non si tratta solo di vedere nei «fatti atroci dell’uomo contro l’uomo» un effetto dei tempi e delle circostanze. Con l’orrore e la compassione accompagnati dallo scoraggiamento e una «specie di disperazione»: «Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi». Così «rimane l’orrore e scompare la colpa». «Ma quando, nel guardare più attentamente a quei fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, un tresgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo spere, fu per quell’ ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti, si può essere bensì forzatamente vittime, ma non autori».
Uno sguardo quello di Manzoni che si posa su coloro che fecero un monumento della loro infamia: dovrà passare più di un secolo per giungere alla sua demolizione. Qui risiede uno di momenti salienti a commento della cronaca sui fatti della Colonna Infame: il confronto con la lettura di Pietro Verri, che occupa una parte significativa dello scritto. La polemica, se così vogliamo chiamarla, muove dal passo in cui «l’ingegnoso, ma preoccupato», Verri, constatata la mancanza di leggi che autorizzassero la tortura, indirizza il proprio J’accuse nei confronti degli “scrittori”, concludendo: «tutto questo strazio si fa sopra gli uomini con l’autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati».
Le conclusioni di Manzoni le troviamo nel III capitolo. I limiti e il valore degli esiti della tortura «Erano sforzi vani per conciliar la certezza col dubbio» per non tormentare innocenti estorcendo false confessioni: si voleva la tortura per scoprire se uno fosse innocente o reo. «La conseguenza logica sarebbe stata di dichiarare ingiusta e assurda la tortura». Ma prima di «quel libriccino Dei delitti e delle pene» che «parve, com’ era, ardire di un grande ingegno: un secolo prima sarebbe parsa stravaganza». Nelle grandi e piccole cose ciò che si perpetua come naturale e necessario deve cedere, «ma questo momento dev’essere preparato. Ed è già un merito non piccolo degl’interpreti, se come ci pare, furono essi che lo prepararono, benché lentamente, benché senza avvedersene, per la giurisprudenza». La cronaca del processo agli untori ci dice che furono i giudici a non cercare la verità; «volevano una confessione: non sapendo quale vantaggio avrebbero avuto nell’esame del fatto supposto, volevano venir presto al dolore, che dava loro un vantaggio pronto e sicuro: avevano furia. Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l’avevan nelle mani non l’avrebbero fatto confessar a lui!».
Il pervertimento della giustizia nel processo agli untori non fu quindi solo conseguente allo spirito dei tempi. Furono uomini che giunsero fino ad abusare delle regole vigenti, nonostante esse fossero bastevolmente feroci e inaccettabili. Il giudizio di Manzoni si concentra quindi sulle concrete figure che operarono – i giudici – non permettendo di giustificarli in nome della ineluttabilità della storia, che rimandava alla responsabilità degli “scrittori”, di quella che oggi definiremmo la dottrina dominante, scienza che si era “fatta legge” anche nell’uso nella tortura giudiziaria, ma non nell’abuso arbitrario che, secondo Manzoni, ne era stato fatto nel processo di Milano.
Così la Storia della colonna infame si spinge oltre il genere dello scritto morale sul conflitto tra il bene e il male, tra vittime e carnefici, tra umili e potenti. Narra, in una prospettiva metastorica di modi e prassi che possono inverarsi nei riti della giustizia penale: svela la distanza che può separare, in ogni tempo, la ricerca della verità e della colpa dagli strumenti a cui far ricorso perseguendo, solo in apparenza, quello scopo. Secondo Manzoni, anche all’epoca dei fatti della Colonna, anche nei delitti più atroci non era lecito oltrepassare il diritto. Secondo gli stessi “dottori” ciò poteva riguardare la pena in epoche di atroce, accettato e amato dalla folla, “splendore dei supplizi”. Non la prova: gli indizi dovevano comunque essere sufficientemente certi. Gli indizi per la tortura dovevano rendere al giudice più facile la scoperta del delitto, non dargli la possibilità di tormentare chiunque gli capitasse tra le mani. Però, conclude «Son cose che una teoria astratta, non riceve, non inventa, non sogna neppure; bensì la passione le fa».
Quanto agli uomini e alla loro giustizia, la lezione di Manzoni ci conduce quindi alle loro «passioni»: potremmo dire che le passioni possono cambiare, ma non la loro capacità di andare oltre le leggi. Le passioni e la ferocia condussero allo scempio, nella vicenda secentesca: la volontà di corrispondere a dicerie, credenze, superstizioni radicate in una popolazione ignorante e superstiziosa, esasperata dalla peste, dalla carestia, dalla guerra, dai governanti e dai loro arbitri, con l’esito di sacrificare capri espiatori trovati in quelle stessa plebe. «Tutto Milano sapeva» che erano colpevoli gli untori. Vi fu cioè asservimento a quelle che oggi chiameremmo “teorie del complotto”. La Storia della colonna infame ce le racconta nel crescendo dei supplizi per allargare e condurre “in alto” la cerchia dei complici e dei cospiratori.
Chiediamoci ora come tradurre, nella realtà di oggi, il concetto di umana “passione”, che può irrompere nell’esercizio della giustizia penale, compromettendo lo scopo di ricerca di verità e responsabilità. Si può ipotizzare che le “passioni” dei giudici milanesi, di cui parla Manzoni, siano assimilabili ai concetti attuali di empatia ed emozioni? La questione può sintetizzarsi nella necessità, che incombe su chi ha il ruolo e la responsabilità di decidere una controversia, di “allenarsi” a resistere a intuizioni, impulsi, convinzioni, stereotipi ed errori cognitivi. Non si può pensare di eliminare nel giudice l’intuizione nel momento storico-ricostruttivo della decisione. Quella che Carlo Ginzburg chiama «l’intuizione bassa». Ancora, notissimo, il ruolo dato alle passioni in Delitto e castigo. Sfuggire alle “passioni” vuol dire evitare una contrapposizione tra giudice emotivo e giudice razionale, dovendo trovare un punto di equilibrio, una sintesi: che non dia prevalenza né a giudizi sospinti da passioni e intuizioni, né alla pretesa di rinchiudere i percorsi del decidere in paradigmi regolati da aprioristica razionalità.
Giudicare di colpe e di punizioni, è forse l’arte più difficile, sempre sul punto di precipitare nell’abiezione. Entriamo in un paesaggio in cui collocare oggi le emozioni del decisore penale: occorre chiedersi quale sia la “materia” che le alimenta e le compone. I giudici che incontriamo ogni giorno possono veramente essere portatori di una “recta ratio”, di una saggezza del decidere, intrisa di ragioni ed emozioni? O non occorre piuttosto chiedersi quali sono i riferimenti sociali, gli interessi che orientano le idee e le soluzioni del formante giurisprudenziale, del “diritto vivente”. Il ripetersi di conflitti con il potere legislativo e con le funzioni amministrative pone la questione di quali siano la base sociale, gli interessi che si esprimono nell’azione giudiziaria. Chi sono i giudici? Quali le modalità di reclutamento e di formazione di questo nuovo attore politico? L’istanza di certezza che oggi si vuole garantita dall’intensificarsi della nomofilachia della Corte di cassazione quanto è compatibile con la nuova attribuzione di poteri e con la liquidazione del “giuridismo”? Quali sono, nella realtà, le dinamiche che presiedono alle carriere o ad incarichi speciali, che governano la produzione di élite giudiziarie in funzione del definirsi in modo uniforme della nuova legalità? Un’analisi necessaria, se la produzione di penalità e le strategie politico criminali sono, anche solo “codeterminate” dal potere giudiziario. Con attributi di sovranità che si definiscono all’interno del corpo giudiziario, mantenendo solo l’apparenza di subordinazione alla legge.
La comunicazione politica, ormai personalizzata, non può fare a meno del rapporto con il potere giudiziario e i media, enormemente potenziati dalle nuove tecnologie informatiche. Si tratta di un blocco compatto che dà voce a una “società giudiziaria” animata da una inesauribile istanza punitiva e vendicativa. Una società intronata da un flusso continuo di notizie, di complotti, di caste, di privilegi, di malaffare, che volge lo sguardo al leader e alla sua “recitazione”, cercando conferme in repliche pronte e dure affidate all’agenzia giudiziaria.
È possibile distinguere emotività e intuizioni del decisore dalle costruzioni veicolate di vecchi e nuovi media? Si può confidare sulla impermeabilità alla pervasiva verità somministrata dei social network, potenziata all’infinito dalla ubiquitaria connessione degli smartphones, al momento della ricostruzione storica del fatto da parte del giudice? Si possono immaginare decisori indenni dalla macchina dei consensi formatisi nei processi paralleli celebrati nelle reti televisive, a colpi di sondaggi prêt-à-porter? La sofferenza e l’ansia di ristoro delle vittime, sempre più al centro di ogni dettagliato racconto mediatico, può sfuggire a processi di identificazione compassionevole tali da alimentare la componente emotiva del decidere?
Oggi cogliamo “passioni” della giustizia penale non più guidata da ignoranza, credenze, superstizioni di un volgo reso feroce e colpevolmente ascoltato da chi invece avrebbe dovuto e potuto trovare la verità insieme all’ innocenza di poveri capri espiatori. Spunti li ritroviamo in un panorama certo diverso che presenta, però, in molti casi, dinamiche e notazioni analoghe rese inquietanti dalla crisi politica delle democrazie liberali, con l’affermarsi di un populismo penale che si rispecchia in quello politico, regolando i meccanismi del consenso democratico.

Concludo.
Senza specifiche conoscenze specialistiche sulla complessa figura letteraria e intellettuale di Alessandro Manzoni ho provato a cogliere, tra le sue tantissime corde, quanto può dirci ancora sulla giustizia penale. Nell’itinerario, che ho provato a ripercorrere, del ricevimento del romanzo, finalmente riunito alla Storia della colonna infame, devo dare atto della dissonante voce di Franco Cordero. Quanto faticosamente si è svolta la revisione, sottraendo Manzoni e, in particolare, I promessi sposi, alle letture “istituzionali”, tanto rapidamente quell’illustre maestro contemporaneo della procedura penale li risospinge, con due pubblicazioni uscite a breve distanza di tempo l’una dall’altra, in una dimensione che riesce ad essere ulteriormente negativa. Ciò avviene anche con una meticolosa ricostruzione di contraddizioni e debolezze della vita dell’autore: le sue nevrosi, le sue frequentazioni, fino alla sua falsificazione nel racconto dei personaggi storici veri del romanzo, ad esempio quella del cardinale Borromeo.
Il giudizio di Cordero ricolloca Manzoni come agente di un neoguelfismo reazionario, il più insidioso e pervasivo, considerata l’emancipazione e la fortuna che il suo pensiero aveva raggiunto contro quella lettura istituzionale nella quale era stato per lungo tempo relegato. È una invero singolare vicenda quella del rapporto tra queste due figure, si potrebbe anche dire quella del loro rispecchiarsi. Alessandro Manzoni, poeta, moralista, romanziere, non estraneo alla militanza politica risorgimentale, storico: assurto, dopo alterne fortune, a protagonista della cultura italiana nel mondo, con un percorso di vita tormentoso, segnato anche da una decisiva svolta religiosa. Franco Cordero, indiscutibile maestro per gli studiosi del processo penale, cimentatosi anche in esperienze letterarie e, soprattutto, in monumentali lavori storiografici non senza una discesa in campo come pubblicista e commentatore politico. E anche nel suo caso troviamo fratture e svolte significative.
Infine. Cordero spigoloso e contundente nelle narrazioni e nei giudizi. Alessandro Manzoni, in apparenza quieto, tuttalpiù solo ironico. Che, forse, si tratti solo di apparenza, lo svelano anche le ultime pagine della Storia della Colonna Infame. Torniamo a Cordero, che lo ha messo alla berlina per il suo severo giudizio nei confronti di Pietro Giannone. Vi legge l’incoercibile clericalismo di Manzoni, che censura come plagiatore una nobile e importante figura intellettuale della fine del XVIII secolo, fatta oggetto di spietata persecuzione da parte della Chiesa. Si rispecchiano due simmetriche malevolenze. L’una, quella di Cordero, coglie, con fondamento, l’ostilità di Manzoni verso un intellettuale lontano dal suo sentire, ma che, va detto, egli critica in quanto aveva ripreso, facendola apparire veridica, la cronaca del veneziano Nani sulla peste e la punizione dei colpevoli. Manzoni però eccede. Documenta, con esempi, la natura seriale di plagiatore dell’intellettuale illuminista ischitellano. E questa è malevolenza. Un vero fuor d’opera nel contesto di un resoconto degli autori che, prima di lui, avevano narrato della peste e del processo.
Ma a proposito della, solo apparente, mansuetudine di Manzoni, bisogna richiamare il finale trattamento riservato a Pietro Verri. Una “chiusura” dei conti, dopo il lungo confronto sulla responsabilità di “scrittori” e giudici. Osservazioni sulla tortura fu scritto nel 1777, ma fu pubblicato solo nel 1804. Ci dice Manzoni che del ritardo rende ragione l’editore «Si credette che l’estimazione del senato potesse restar macchiata dall’antica infamia». «Effetto comunissimo a quei tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti». E conclude la Storia: «Il padre dell’illustre scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell’une e dell’altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta».
Forse ancora un insegnamento da questa storia. Se ci si avventura nella introspezione della vita di uomini di cui si esaminano gli scritti, si possono fare scoperte che, per non appannarne l’importanza, se non il mito, ci consigliano di restare alla utilità consistente nell’aiutarci a interpretare il presente. Quanto a Manzoni, per comprendere le sempre possibili degenerazioni del processo penale. Quanto a Cordero, fermandoci alle sue pagine di raffinato studioso della procedura penale. 
Gaetano Insolera
già Ordinario di Diritto penale
all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna