Résumé s'il vous plait
Innanzitutto, una buona notizia: sarò breve. E due premesse. Non voglio occuparmi della prospettiva esterna al discorso su Lo Stato, relativamente alla quale rinvio al piccolo “affresco” (storico, sociologico, giuridico e culturale), pubblicato sul pezzo d’apertura dell’ultimo numero della Rivista. Allo stesso modo, non mi voglio occupare neppure della prospettiva interna a Lo Stato, dedicata al lato teorico e metodologico, perché anche di quella ho parlato nell'editoriale, per cui sarebbe banalmente un ri-dire. Mi occuperò, come suggeriva che avrei dovuto fare l'amico Morbidelli, della vita della Rivista e della mia direzione, anche nell'àmbito della più ampia cornice dei Seminarî Mutinensi. Ma, visto che in un certo qual modo sono stato “tirato per la giacchetta” durante alcuni interventi, anche dall'amico Massimo Luciani, quando si riferiva alla prima parte del mio editoriale, che comunque lui correttamente ha interpretato come non nostalgica, spenderò due parole al riguardo.
Le malelingue potranno darmi del passatista ma io vengo dalla vecchia scuola borghese e selettiva. Frequentavo Palazzo Carnacini, il mitico rettore dell’Università di Bologna, perché ero compagno di corso e amico del figlio Carlo. E quindi ci capitava talora di fare capolino (o addirittura appoggiarci) presso la redazione della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, sita al pianterreno del Palazzo di via Guido Reni, dove c'era tutto un via vai di collaboratori, studiosi e professionisti (fra i quali il garbato e affettuoso Mario Vellani, poi rettore dell’Università di Modena), facendo eccezionalmente anche qualche piccola commissione, come quella volta che andammo in missione per conto del Magnifico per acquistare una macchinetta che apriva elettricamente la posta e di cui il Professore andava fierissimo divertendosi beffardamente a usarla col suo strano ronzio mentre riceveva, volta per volta, la lunga processione dei molteplici postulanti.
Quell'Accademia, per me, è stata il secondo grande Amore. In tutti i sensi. Mi ricordo che la scalinata in granito verde per salire al vecchio istituto giuridico mi sembrava monumentale, mentre qualche decennio più tardi mi resi conto che era poco più che una “scalinatina”. È vero, c'era una scotomizzazione all'incontrario. I professori erano felpati, con le eleganti grisaglie (De Luca talora faceva lezione in Tight corto e quel dandy di Mancini capitò che la facesse coi pantaloni a quadretti e le classiche scarpe da golf), in particolare io frequentavo molto i romanisti, passavo ore e ore nelle loro stanze in compagnia degli amici Dalla e Lambertini, in particolare in quelle di Nardi e di Luzzatto, due leggende. A parte che in quei tempi si favoleggiava pure di un Lanfranchi che durante lo straordinariato fosse solito volare a Sassari per andare a far lezione guidando personalmente il proprio aeroplano.
A stare in quell’ambiente ti sembrava di fare l'aerosol con l’essenza della mitica Alma Mater: purissima Academia.
Dopo la laurea ho cominciato sùbito a collaborare coi professori Renato Alessi e Fabio Alberto Roversi Monaco ed era tutto entusiasmante, erano anni in cui c'era un’enorme presenza di colleghi e si stringevano moltissimi rapporti, io ne avevo una marea. Il Giuridico rimaneva aperto fino a tarda sera e ci stavamo fino alla chiusura! Poi si usciva e si andava all'osteria del Moretto, dove mi capitava di sedermi (magari a mangiare una bresaola con avocado e vinagre nonché) a chiacchierare col prof. Enzo Melandri, un monumento (genovese) della filosofia bolognese – maestro, tra gli altri, di Stefano Besoli e di Stefano Bonaga – che in quell'osteria aveva scritto parti de “La linea e il circolo”, a detta di Umberto Eco uno degli studi più importanti del dopoguerra, che obbliga a ripensare il pensiero occidentale dai presocratici al neopositivismo.
Per la verità, la mia frequentazione del Moretto (o, alternativamente, dell’osteria del Sole di Luciano Spolaore) risaliva al tempo dei primi studi giuridici, quando ci andavo insieme a Federico Paganelli, collega di Facoltà, di un paio di anni più vecchio di me, conosciuto tramite alcuni amici del liceo Minghetti coi quali giocavo a ping pong, dal quale ho ereditato l’amore per gli ombrelli (che colleziono fin d’allora) alla stregua di Erik Satie e condiviso il bere ad alto livello (che fisicamente non mi posso più permettere, ahimè). Stretto amico di Federico era poi Sandro Toni, minghettiano pure lui, tra i fondatori della Cineteca di Bologna e allievo di Anceschi, mitico professore di estetica a lettere. E infine il terzo moschettiere, anch’esso iscritto a Giurisprudenza, era Girolamo Zorli, detto Momi, un Conte di Bagnacavallo nipote dell’attore brillante Raffaele Pisu: una specie di finto intransigente ma sotto sotto decisamente un bon vivant piuttosto sornione. Più tardi, Federico diventò banchiere sulle orme di uno zio materno e Momi Export Manager di industrie ceramiche. Ma è stato pure socio de Le Tarot e autore de Il Tarocchino Bolognese, pubblicato da Forni, nonché di numerosi saggi e articoli sui giochi di carte italiani del XV e XVI secolo.
Con Sandro, invece, oltre che una solida amicizia, condividemmo svariate avventure, a cominciare dal periodo parigino dedicato allo studio della Nouvelle Vague per il quale beneficiò di una borsa di studio dell’Università petroniana in modo da approfondire, in particolare, la filmografia del leggendario Jean-Luc Godard. Era il tempo della Cinémathèque française dei Cahiers du Cinéma (come Truffaut, Godard, Rohmer, Robert Bresson, André Cayatte, Claude Chabrol, Abel Gance, Pierre Kast eccetera): ricordo infinite proiezioni giornaliere e notturne intervallate da pranzi gustosissimi nei limitrofi ristorantini vietnamiti allora di ottima qualità e poca spesa, nonché, talora, da qualche piacevolissimo cocktail a La Closerie des Lilas. E nello stesso periodo di tempo anche Sandro Berti Ceroni, un altro amicone bolognese (col quale sovente andavamo a sentire jazz a Le chat qui pêche o a Le caveau de la huchette), stava a Parigi con una borsa di studio della Sorbona insieme a Stefano Bonaga, che gli si era accroccato in casa come un paguro bernardo. Rammento che si favoleggiava, tra il mito e il verosimile, di loro colazioni al bistrot con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.
Erano tempi di grandi slanci e di grandi entusiasmi. Non è che sono nostalgico tanto per dire: mi manca quel mondo però, mi manca tanto. Ma qui si toccano le dominanti e si rischia facilmente di vacillare. Poi ci sono stati quasi trent’anni piuttosto duri – massicci – trascorsi cambiando letto ogni settimana tra Bologna, dove vivevo, e Roma, dove condividevo vicende accademiche con Sergio Fois – mio grande e amatissimo Maestro – e rivestivo incarichi istituzionali pubblici e privati, con l’aggiunta in contemporanea di un quinquennio a Sassari, dove avevo ottenuto lo straordinariato. Con alcuni di voi ci incontravamo sovente in treno: con Gian Guido Sacchi Morsiani, Piero Gnudi, Furio Bosello, Antonio La Forgia, Ivano Spallanzani ed altri viaggiavo regolarmente da Bologna mentre da Roma rientravo tutte le volte che era possibile (e preferibilmente) in compagnia del solo Umberto Eco, grande e divertente conversatore: un autentico privilegio di cui ero gelosissimo!
È stato tutto molto complicato e mentre pensavo al mio “fuori ruolo” incombente, che è un termine elegante per schivare la parola ‘pensionamento’, comunque già molto meglio della crepuscolare “messa a riposo”, magari con le mani incrociate sul petto, mi baloccavo nell'ideale post ottocentesco del “ritirarmi a vita privata” per dedicarmi ad alcune delle mie grandi passioni a lungo gioco forza trascurate: la lettura e rilettura dei classici antichi e moderni, la pittura (fattiva e contemplativa), la musica (anche qui sia da fruire, sia da praticare), il collezionismo, fra l’altro, di qualche chicca Biedermeier, di qualche preziosa grisaglia settecentesca o tanto altro ancóra. Invece, quando è arrivato il momento buono, mi sono trovato in una situazione paragonabile al sistema di Venturi, un marchingegno che se metti del liquido in un tubo dopo un po’ tutti i tubi sono pieni di quel liquido. E i tubi erano la mia vita, mentre il liquido era tutto il mio tempo. Perché in realtà quest’avventura de Lo Stato (o, meglio ancóra, dei Seminarî Mutinensi) è montata su come un pugno di magnesia in un bicchier d’acqua e man mano che mi allontanavo dall'Accademia aumentava progressivamente il lavoro perché obiettivamente – com’è arcinoto – non basta mai! Con delle complessità a non finire perché viviamo un mondo complicato, di colleghi complicati. E intelligenti e attrezzati, quindi più pericolosi, ma spesso pure bari… La nostra sarebbe tendenzialmente una rivista ad invito. Tu fai la richiesta e loro ti dicono «Ah sai, non ho tempo, mille cose, ho preso trecentomila impegni» e allora tu «vabbè, consegnami il lavoro fra un anno» così ti rispondono «beh, fra un anno posso pensarci», tranne il fatto che nove mesi dopo siamo da capo: «porca miseria non c'è tempo!»; «Ma hai avuto nove mesi!»; «ah ma sai la vita...». Quindi cosa fai? Li incalzi? Ad alcuni fa piacere che gli si stia dietro, però altri si risentono: «Ma come? Me l'hai già detto tre volte!». E poi dilazioni, trattative, ritardi e insoffribili lungaggini. Nell’ultimo numero, ad esempio, un amico molto caro mi ha consegnato il suo lavoro il 29 luglio, con l’impaginato già pronto di cui abbiamo dovuto cambiare tutti i numeri delle pagine, per cui alla fine abbiamo lavorato forsennatamente insieme a Federico Pedrini e Luca Vespignani nelle prime tre settimane di agosto per riuscire a consegnare il numero all'editore – à bout de souffle – in modo che fosse pubblicato a settembre. E in tutto questo – se non bastasse – mi sono beccato anche una lettera di rimbrotto da parte di un luminare. Non faccio i nomi e neanche i cognomi però me la son beccata, pur essendo – credo – decisamente incolpevole.
È una realtà complicata e se vuoi scalare quest’ardua tastiera devi ragionare da imprenditore puro, come fece Giulio Ricordi quando corteggiava il vecchio Giuseppe Verdi insieme ad Arrigo Boito, che però anni prima lo aveva provocatoriamente preso in giro insieme alla pletora degli scapigliati meneghini cantandogli «Zumpapà Zumpapà» quando entrava alla Scala. E Verdi era un vecchio iracondo con una memoria da elefante! Quando si presentarono alla porta della sua dimora di Sant'Agata per poco non li lasciò sul marciapiede fuori di casa all’addiàccio, ma loro continuarono suadentemente col morso dolce, implacabilmente, e in ultimo lui finì addirittura per innamorarsi di Boito che per cogliere il bersaglio s’era volonterosamente umiliato strisciando come una serpe. Al punto che si rimise a lavorare dopo un periodo durante il quale aveva fatto prevalentemente l'agricoltore, andando in giro per le sue vaste proprietà col calessino a una balestra e la cavallina. Come dicevo, s’è messo di nuovo a lavorare e ha sfoderato capolavori come l'Otello e il Falstaff, che hanno fatto fare un upgrade a tutto il melò europeo.
Altro esempio lo abbiamo col grande Giacomo Puccini, uomo sempre innamorato dell’amore, che un bel giorno costrinse il povero Ricordi ad andare a Londra con un portafoglio imbottito di quattrini per liquidare una storia sentimentale del Maestro, che non scriveva più perché era disperato, e riportarlo a Torre del Lago dall’amato e rassicurante club “La Bohème”, fondato dai suoi fan con epiche cene di cacciagione e mitiche sonate da melomani le notti con la luna che si rifletteva magicamente sullo specchio del lago incantato! E anche in questo caso il risultato furono una volta ancóra grandi capolavori, tant'è che il primo acquirente degli spartiti pucciniani appena editati era Claude Debussy perché fremeva per conoscere quali erano le nuove strade aperte dal grande compositore lucchese. Voi direte che nel nostro giro non ci sono dei Verdi o dei Puccini, ma abbiamo comunque un bel livello qualitativo tutt’intorno, specialmente da parte dei maestri più “maturi”, sebbene anche fra le generazioni meno risalenti ci siano presenze assolutamente non disprezzabili. Abbiamo dei colleghi di cui possiamo decisamente farci vanto che però, come dicevo, non sono “attrezzi” affatto facili da maneggiare.
Mi dice il nostro ospite Giuseppe Morbidelli che per i nostri Seminari ci vorrebbe il portafoglio turgido di Giulio Ricordi. Beh, il portafoglio ci sarebbe pure ma il problema è rabboccarlo incessantemente perché l’emorragia è implacabile e costante! Io agli albori di questa avventura ho molto beneficiato del mio passato romano, del lungo periodo in cui sono stato Responsabile Nazionale per le Questioni Istituzionali della Confartigianato, grazie al quale ruolo ho maturato diverse esperienze, facendo anche parte del Comitato scientifico dell’Agenzia per la promozione di studi di economia e lavoro (ECOL), collaborando all’operazione Artigiancassa, quando Mario Draghi era direttore generale del Tesoro e Davide Croff AD della BNL, presiedendo pure Fondartigiani, un fondo pensioni integrative costituito unitariamente da tutte le organizzazioni italiane dell’artigianato. Tutte queste esperienze, insieme ad altre, mi hanno messo a contatto con tanto e variegato mondo dell'economia e mi hanno aperto delle strade per facilitare le richieste di finanziamenti circa le nostre attività editoriali e non solo, specialmente nei primi tempi. Poi tutto ci è cambiato sotto i piedi. Durante il periodo del Covid abbiamo lavorato moltissimo ma una volta finita la pandemia abbiamo trovato interlocutori assai cambiati. Anche perché lo stesso ambiente bancario, con cui avevamo un dialogo aperto, doveva far fronte a sempre nuove e differenti esigenze: ormai nella contemporaneità si parla disinvoltamente di multiverso, ahinoi!
Tornando alla vita de Lo Stato, e più precisamente alla sua “nascita”, ero in piena furia romana quando nel 2003 mia madre fu colpita da una grave malattia. Fino a quel momento avevo sfruttato vergognosamente mia moglie, che aveva accettato di portare i pantaloni in casa Vignudelli conducendo una famiglia “pesantuccia”, con i miei genitori, imprenditori di un certo tono e timbrica rovente, tutt’altro che facili da gestire. Ma non me la sono sentita di appoggiarle anche questa ulteriore corvè; ho lasciato tutti i miei incarichi romani e sono tornato a Bologna scegliendo il tempo pieno all’università senza mai pentirmene. Per la prima volta in vita mia, invero, ho fatto quello che desideravo fare da sempre. Ho cominciato organizzando una serie di nove convegni nazionali in tre anni, i cui atti sono poi finiti in tre grossi volumi che molti di voi hanno ricevuto, visto che in quella che sarebbe diventata la nostra mission c’è la promozione culturale, a cominciare dalla significativa diffusione dei nostri prodotti. E, rinfrancato dalla risposta importante che avevo ricevuto dai cari colleghi, ho fatto decollare il ciclo delle Lectiones magistrales, che sono state raccolte in tre eleganti volumetti con la partecipazione di sessanta dei più importanti costituzionalisti italiani. Dopodiché, ho mosso un ulteriore passo avanti facendo decollare la collana delle Piccole Conferenze che, devo dire, ha ottenuto un successo travolgente, al di là di ogni nostra più rosea aspettativa. Quindi mica male. Fino all’incontro col caro amico Agostino Carrino, il quale purtroppo di recente è stato colpito da un lutto pesantissimo e non può quindi essere con noi oggi a festeggiare, ma ha voluto comunque scrivermi e mi dice: «caro Aljs, credo di non averti detto che ovviamente ho letto la tua introduzione, l’ho trovata elegante. Perché non scrivi un libro di memorie? ‘Autobiografia di un giurista malinconico’ o anche incazzato, se preferisci. Appena sono nel mood, ti chiamo. Per ora lotto da solo contro il destino infame. Un abbraccio». Col caro Agostino ci vedemmo a Bologna, in occasione di un’importante presentazione al Cirsfid di Enrico Pattaro (Palazzo Dal Monte–Gaudenzi) degli scritti di Hasso Hofmann, a cui lui era legatissimo e che aveva tradotto in varie salse. Poi andammo a pranzo al Circolo della Caccia e chiacchierammo sulla possibilità di creare questa Rivista, che poi effettivamente varammo con entusiasmo e, credo, molta serietà e tantissimo onesto lavoro.
Tu dici, caro Giuseppe, che dieci anni non sono tanti ma – a ben vedere – dipende tutto da quanto pesano per chi li conta, perché ti assicuro che dieci anni così ti aumentano freneticamente il diabete che finisce fuori controllo, e i tempi recentissimi ne sono stati evidente testimonianza! Perché di lì è venuto fuori molto altro, a cominciare dai Quaderni dello Stato, dove abbiamo pubblicato e tradotto opere molto importanti, tra cui – lo ricordo visto che siamo felicemente nell’amata Florentia – un grosso volumone di scritti di Enzo Cheli in materia di manifestazione del pensiero a cura della cara amica Michela Manetti. Poi è arrivata, per allargare ancóra di più il campo toccando anche temi ai confini con altre discipline come, ad esempio, la letteratura, la collana de Il Poggiolo dei Medardi, per la quale, ad esempio, l'amico Luciani ci ha dato un suo bellissimo scritto su Leopardi. Da ultimo, abbiamo costruito il nostro sito digitale denominato “Seminarî Mutinensi” nonché il nostro giornale elettronico, intitolato il “Gazzettino dei Seminarî Multinensi”… e lo dico senza tema di smentita, non è stata propriamente una passeggiatina!
In passato avevo avuto svariate possibilità di partecipare ad altri rassemblament editoriali, ma seguendo la massima di Jim Morrison, che dice: «ho bisogno di distinguermi dalla massa, non mi sento al mio posto in mezzo alla maggioranza», ho preferito mettermi in proprio. Ho aspettato finché non sono stato libero di fare esattamente ciò che fantasticavo. Quella che volevo era una ribalta aperta, che, come dico nell'editoriale, non diventi la ribalta di zia Clara ma sia capace di accogliere le varie lingue senza per questo diventare una Babele. Già a scuola mi vergognavo “per conto terzi” quando qualche compagno faceva scena muta in un’interrogazione ed è un sentimento che talora ho provato anche nella mia lunga vita accademica vedendo cose che non mi sono piaciute. Ad esempio, spesso ho visto lavori rifiutati per ragioni non nobili. E quando le ragioni non sono nobili, sovente capita che siano ignobili. E non mi è piaciuto. Ho visto personaggi in posizioni di primo piano, che dirigevano a bacchetta la danza e decidevano cosa si poteva dire e cosa non si doveva sostenere. E non mi è piaciuto per niente. Ho visto persone favorite nel pubblicare perché cantavano la solita musichina; si sono inventate cattedre per suonare in coro quelle zampogne stridenti. E non mi è piaciuto. Ho sentito parlare della “dottrina dominante” come se fosse un blasone altisonante, un baluardo di perfezione, mentre, come già spiegava Popper, era solo un modo prepotente per avere la meglio e dividere le postazioni. Quando tutto lo spazio è occupato e non c’è più possibilità di allargarsi, allora nasce una nuova minoranza, che all’inizio viene osteggiata ma pian piano prende piede e magari alla fine diventa maggioranza finché non viene a sua volta scalzata in una specie di vano quanto sterile gioco delle maree. Sappiamo com’era la gestione delle cattedre di filosofia in Germania quando Hegel le governava tutte. Chi non è con te diviene un “Mr. Nobody”, cioè Mister Nessuno, che non esiste, deve sparire, il suo nome deve essere cancellato anche dalle steli di marmo. Tutte queste cose a suo tempo le ho vissute nel silenzio perché non avevo l'autorevolezza sufficiente per dire la mia spostando qualcosa: guardavo e non mi piacevano. Ecco perché, quando finalmente sono maturate le condizioni propizie, ho cercato di offrire una platea a chiunque scriva delle cose di valore utilizzando quale unico criterio di selezione la serietà scientifica. Intesa in tal modo, questa credo sia un'attività reputabile di pubblico interesse. Ragione per cui io e coloro coi quali ho il piacere e l'onore di operare, accarezziamo – come si dice – il nostro sogno, seppur ci tormenta.
Grazie a tutti, di tutto e per tutto.
Le malelingue potranno darmi del passatista ma io vengo dalla vecchia scuola borghese e selettiva. Frequentavo Palazzo Carnacini, il mitico rettore dell’Università di Bologna, perché ero compagno di corso e amico del figlio Carlo. E quindi ci capitava talora di fare capolino (o addirittura appoggiarci) presso la redazione della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, sita al pianterreno del Palazzo di via Guido Reni, dove c'era tutto un via vai di collaboratori, studiosi e professionisti (fra i quali il garbato e affettuoso Mario Vellani, poi rettore dell’Università di Modena), facendo eccezionalmente anche qualche piccola commissione, come quella volta che andammo in missione per conto del Magnifico per acquistare una macchinetta che apriva elettricamente la posta e di cui il Professore andava fierissimo divertendosi beffardamente a usarla col suo strano ronzio mentre riceveva, volta per volta, la lunga processione dei molteplici postulanti.
Quell'Accademia, per me, è stata il secondo grande Amore. In tutti i sensi. Mi ricordo che la scalinata in granito verde per salire al vecchio istituto giuridico mi sembrava monumentale, mentre qualche decennio più tardi mi resi conto che era poco più che una “scalinatina”. È vero, c'era una scotomizzazione all'incontrario. I professori erano felpati, con le eleganti grisaglie (De Luca talora faceva lezione in Tight corto e quel dandy di Mancini capitò che la facesse coi pantaloni a quadretti e le classiche scarpe da golf), in particolare io frequentavo molto i romanisti, passavo ore e ore nelle loro stanze in compagnia degli amici Dalla e Lambertini, in particolare in quelle di Nardi e di Luzzatto, due leggende. A parte che in quei tempi si favoleggiava pure di un Lanfranchi che durante lo straordinariato fosse solito volare a Sassari per andare a far lezione guidando personalmente il proprio aeroplano.
A stare in quell’ambiente ti sembrava di fare l'aerosol con l’essenza della mitica Alma Mater: purissima Academia.
Dopo la laurea ho cominciato sùbito a collaborare coi professori Renato Alessi e Fabio Alberto Roversi Monaco ed era tutto entusiasmante, erano anni in cui c'era un’enorme presenza di colleghi e si stringevano moltissimi rapporti, io ne avevo una marea. Il Giuridico rimaneva aperto fino a tarda sera e ci stavamo fino alla chiusura! Poi si usciva e si andava all'osteria del Moretto, dove mi capitava di sedermi (magari a mangiare una bresaola con avocado e vinagre nonché) a chiacchierare col prof. Enzo Melandri, un monumento (genovese) della filosofia bolognese – maestro, tra gli altri, di Stefano Besoli e di Stefano Bonaga – che in quell'osteria aveva scritto parti de “La linea e il circolo”, a detta di Umberto Eco uno degli studi più importanti del dopoguerra, che obbliga a ripensare il pensiero occidentale dai presocratici al neopositivismo.
Per la verità, la mia frequentazione del Moretto (o, alternativamente, dell’osteria del Sole di Luciano Spolaore) risaliva al tempo dei primi studi giuridici, quando ci andavo insieme a Federico Paganelli, collega di Facoltà, di un paio di anni più vecchio di me, conosciuto tramite alcuni amici del liceo Minghetti coi quali giocavo a ping pong, dal quale ho ereditato l’amore per gli ombrelli (che colleziono fin d’allora) alla stregua di Erik Satie e condiviso il bere ad alto livello (che fisicamente non mi posso più permettere, ahimè). Stretto amico di Federico era poi Sandro Toni, minghettiano pure lui, tra i fondatori della Cineteca di Bologna e allievo di Anceschi, mitico professore di estetica a lettere. E infine il terzo moschettiere, anch’esso iscritto a Giurisprudenza, era Girolamo Zorli, detto Momi, un Conte di Bagnacavallo nipote dell’attore brillante Raffaele Pisu: una specie di finto intransigente ma sotto sotto decisamente un bon vivant piuttosto sornione. Più tardi, Federico diventò banchiere sulle orme di uno zio materno e Momi Export Manager di industrie ceramiche. Ma è stato pure socio de Le Tarot e autore de Il Tarocchino Bolognese, pubblicato da Forni, nonché di numerosi saggi e articoli sui giochi di carte italiani del XV e XVI secolo.
Con Sandro, invece, oltre che una solida amicizia, condividemmo svariate avventure, a cominciare dal periodo parigino dedicato allo studio della Nouvelle Vague per il quale beneficiò di una borsa di studio dell’Università petroniana in modo da approfondire, in particolare, la filmografia del leggendario Jean-Luc Godard. Era il tempo della Cinémathèque française dei Cahiers du Cinéma (come Truffaut, Godard, Rohmer, Robert Bresson, André Cayatte, Claude Chabrol, Abel Gance, Pierre Kast eccetera): ricordo infinite proiezioni giornaliere e notturne intervallate da pranzi gustosissimi nei limitrofi ristorantini vietnamiti allora di ottima qualità e poca spesa, nonché, talora, da qualche piacevolissimo cocktail a La Closerie des Lilas. E nello stesso periodo di tempo anche Sandro Berti Ceroni, un altro amicone bolognese (col quale sovente andavamo a sentire jazz a Le chat qui pêche o a Le caveau de la huchette), stava a Parigi con una borsa di studio della Sorbona insieme a Stefano Bonaga, che gli si era accroccato in casa come un paguro bernardo. Rammento che si favoleggiava, tra il mito e il verosimile, di loro colazioni al bistrot con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.
Erano tempi di grandi slanci e di grandi entusiasmi. Non è che sono nostalgico tanto per dire: mi manca quel mondo però, mi manca tanto. Ma qui si toccano le dominanti e si rischia facilmente di vacillare. Poi ci sono stati quasi trent’anni piuttosto duri – massicci – trascorsi cambiando letto ogni settimana tra Bologna, dove vivevo, e Roma, dove condividevo vicende accademiche con Sergio Fois – mio grande e amatissimo Maestro – e rivestivo incarichi istituzionali pubblici e privati, con l’aggiunta in contemporanea di un quinquennio a Sassari, dove avevo ottenuto lo straordinariato. Con alcuni di voi ci incontravamo sovente in treno: con Gian Guido Sacchi Morsiani, Piero Gnudi, Furio Bosello, Antonio La Forgia, Ivano Spallanzani ed altri viaggiavo regolarmente da Bologna mentre da Roma rientravo tutte le volte che era possibile (e preferibilmente) in compagnia del solo Umberto Eco, grande e divertente conversatore: un autentico privilegio di cui ero gelosissimo!
È stato tutto molto complicato e mentre pensavo al mio “fuori ruolo” incombente, che è un termine elegante per schivare la parola ‘pensionamento’, comunque già molto meglio della crepuscolare “messa a riposo”, magari con le mani incrociate sul petto, mi baloccavo nell'ideale post ottocentesco del “ritirarmi a vita privata” per dedicarmi ad alcune delle mie grandi passioni a lungo gioco forza trascurate: la lettura e rilettura dei classici antichi e moderni, la pittura (fattiva e contemplativa), la musica (anche qui sia da fruire, sia da praticare), il collezionismo, fra l’altro, di qualche chicca Biedermeier, di qualche preziosa grisaglia settecentesca o tanto altro ancóra. Invece, quando è arrivato il momento buono, mi sono trovato in una situazione paragonabile al sistema di Venturi, un marchingegno che se metti del liquido in un tubo dopo un po’ tutti i tubi sono pieni di quel liquido. E i tubi erano la mia vita, mentre il liquido era tutto il mio tempo. Perché in realtà quest’avventura de Lo Stato (o, meglio ancóra, dei Seminarî Mutinensi) è montata su come un pugno di magnesia in un bicchier d’acqua e man mano che mi allontanavo dall'Accademia aumentava progressivamente il lavoro perché obiettivamente – com’è arcinoto – non basta mai! Con delle complessità a non finire perché viviamo un mondo complicato, di colleghi complicati. E intelligenti e attrezzati, quindi più pericolosi, ma spesso pure bari… La nostra sarebbe tendenzialmente una rivista ad invito. Tu fai la richiesta e loro ti dicono «Ah sai, non ho tempo, mille cose, ho preso trecentomila impegni» e allora tu «vabbè, consegnami il lavoro fra un anno» così ti rispondono «beh, fra un anno posso pensarci», tranne il fatto che nove mesi dopo siamo da capo: «porca miseria non c'è tempo!»; «Ma hai avuto nove mesi!»; «ah ma sai la vita...». Quindi cosa fai? Li incalzi? Ad alcuni fa piacere che gli si stia dietro, però altri si risentono: «Ma come? Me l'hai già detto tre volte!». E poi dilazioni, trattative, ritardi e insoffribili lungaggini. Nell’ultimo numero, ad esempio, un amico molto caro mi ha consegnato il suo lavoro il 29 luglio, con l’impaginato già pronto di cui abbiamo dovuto cambiare tutti i numeri delle pagine, per cui alla fine abbiamo lavorato forsennatamente insieme a Federico Pedrini e Luca Vespignani nelle prime tre settimane di agosto per riuscire a consegnare il numero all'editore – à bout de souffle – in modo che fosse pubblicato a settembre. E in tutto questo – se non bastasse – mi sono beccato anche una lettera di rimbrotto da parte di un luminare. Non faccio i nomi e neanche i cognomi però me la son beccata, pur essendo – credo – decisamente incolpevole.
È una realtà complicata e se vuoi scalare quest’ardua tastiera devi ragionare da imprenditore puro, come fece Giulio Ricordi quando corteggiava il vecchio Giuseppe Verdi insieme ad Arrigo Boito, che però anni prima lo aveva provocatoriamente preso in giro insieme alla pletora degli scapigliati meneghini cantandogli «Zumpapà Zumpapà» quando entrava alla Scala. E Verdi era un vecchio iracondo con una memoria da elefante! Quando si presentarono alla porta della sua dimora di Sant'Agata per poco non li lasciò sul marciapiede fuori di casa all’addiàccio, ma loro continuarono suadentemente col morso dolce, implacabilmente, e in ultimo lui finì addirittura per innamorarsi di Boito che per cogliere il bersaglio s’era volonterosamente umiliato strisciando come una serpe. Al punto che si rimise a lavorare dopo un periodo durante il quale aveva fatto prevalentemente l'agricoltore, andando in giro per le sue vaste proprietà col calessino a una balestra e la cavallina. Come dicevo, s’è messo di nuovo a lavorare e ha sfoderato capolavori come l'Otello e il Falstaff, che hanno fatto fare un upgrade a tutto il melò europeo.
Altro esempio lo abbiamo col grande Giacomo Puccini, uomo sempre innamorato dell’amore, che un bel giorno costrinse il povero Ricordi ad andare a Londra con un portafoglio imbottito di quattrini per liquidare una storia sentimentale del Maestro, che non scriveva più perché era disperato, e riportarlo a Torre del Lago dall’amato e rassicurante club “La Bohème”, fondato dai suoi fan con epiche cene di cacciagione e mitiche sonate da melomani le notti con la luna che si rifletteva magicamente sullo specchio del lago incantato! E anche in questo caso il risultato furono una volta ancóra grandi capolavori, tant'è che il primo acquirente degli spartiti pucciniani appena editati era Claude Debussy perché fremeva per conoscere quali erano le nuove strade aperte dal grande compositore lucchese. Voi direte che nel nostro giro non ci sono dei Verdi o dei Puccini, ma abbiamo comunque un bel livello qualitativo tutt’intorno, specialmente da parte dei maestri più “maturi”, sebbene anche fra le generazioni meno risalenti ci siano presenze assolutamente non disprezzabili. Abbiamo dei colleghi di cui possiamo decisamente farci vanto che però, come dicevo, non sono “attrezzi” affatto facili da maneggiare.
Mi dice il nostro ospite Giuseppe Morbidelli che per i nostri Seminari ci vorrebbe il portafoglio turgido di Giulio Ricordi. Beh, il portafoglio ci sarebbe pure ma il problema è rabboccarlo incessantemente perché l’emorragia è implacabile e costante! Io agli albori di questa avventura ho molto beneficiato del mio passato romano, del lungo periodo in cui sono stato Responsabile Nazionale per le Questioni Istituzionali della Confartigianato, grazie al quale ruolo ho maturato diverse esperienze, facendo anche parte del Comitato scientifico dell’Agenzia per la promozione di studi di economia e lavoro (ECOL), collaborando all’operazione Artigiancassa, quando Mario Draghi era direttore generale del Tesoro e Davide Croff AD della BNL, presiedendo pure Fondartigiani, un fondo pensioni integrative costituito unitariamente da tutte le organizzazioni italiane dell’artigianato. Tutte queste esperienze, insieme ad altre, mi hanno messo a contatto con tanto e variegato mondo dell'economia e mi hanno aperto delle strade per facilitare le richieste di finanziamenti circa le nostre attività editoriali e non solo, specialmente nei primi tempi. Poi tutto ci è cambiato sotto i piedi. Durante il periodo del Covid abbiamo lavorato moltissimo ma una volta finita la pandemia abbiamo trovato interlocutori assai cambiati. Anche perché lo stesso ambiente bancario, con cui avevamo un dialogo aperto, doveva far fronte a sempre nuove e differenti esigenze: ormai nella contemporaneità si parla disinvoltamente di multiverso, ahinoi!
Tornando alla vita de Lo Stato, e più precisamente alla sua “nascita”, ero in piena furia romana quando nel 2003 mia madre fu colpita da una grave malattia. Fino a quel momento avevo sfruttato vergognosamente mia moglie, che aveva accettato di portare i pantaloni in casa Vignudelli conducendo una famiglia “pesantuccia”, con i miei genitori, imprenditori di un certo tono e timbrica rovente, tutt’altro che facili da gestire. Ma non me la sono sentita di appoggiarle anche questa ulteriore corvè; ho lasciato tutti i miei incarichi romani e sono tornato a Bologna scegliendo il tempo pieno all’università senza mai pentirmene. Per la prima volta in vita mia, invero, ho fatto quello che desideravo fare da sempre. Ho cominciato organizzando una serie di nove convegni nazionali in tre anni, i cui atti sono poi finiti in tre grossi volumi che molti di voi hanno ricevuto, visto che in quella che sarebbe diventata la nostra mission c’è la promozione culturale, a cominciare dalla significativa diffusione dei nostri prodotti. E, rinfrancato dalla risposta importante che avevo ricevuto dai cari colleghi, ho fatto decollare il ciclo delle Lectiones magistrales, che sono state raccolte in tre eleganti volumetti con la partecipazione di sessanta dei più importanti costituzionalisti italiani. Dopodiché, ho mosso un ulteriore passo avanti facendo decollare la collana delle Piccole Conferenze che, devo dire, ha ottenuto un successo travolgente, al di là di ogni nostra più rosea aspettativa. Quindi mica male. Fino all’incontro col caro amico Agostino Carrino, il quale purtroppo di recente è stato colpito da un lutto pesantissimo e non può quindi essere con noi oggi a festeggiare, ma ha voluto comunque scrivermi e mi dice: «caro Aljs, credo di non averti detto che ovviamente ho letto la tua introduzione, l’ho trovata elegante. Perché non scrivi un libro di memorie? ‘Autobiografia di un giurista malinconico’ o anche incazzato, se preferisci. Appena sono nel mood, ti chiamo. Per ora lotto da solo contro il destino infame. Un abbraccio». Col caro Agostino ci vedemmo a Bologna, in occasione di un’importante presentazione al Cirsfid di Enrico Pattaro (Palazzo Dal Monte–Gaudenzi) degli scritti di Hasso Hofmann, a cui lui era legatissimo e che aveva tradotto in varie salse. Poi andammo a pranzo al Circolo della Caccia e chiacchierammo sulla possibilità di creare questa Rivista, che poi effettivamente varammo con entusiasmo e, credo, molta serietà e tantissimo onesto lavoro.
Tu dici, caro Giuseppe, che dieci anni non sono tanti ma – a ben vedere – dipende tutto da quanto pesano per chi li conta, perché ti assicuro che dieci anni così ti aumentano freneticamente il diabete che finisce fuori controllo, e i tempi recentissimi ne sono stati evidente testimonianza! Perché di lì è venuto fuori molto altro, a cominciare dai Quaderni dello Stato, dove abbiamo pubblicato e tradotto opere molto importanti, tra cui – lo ricordo visto che siamo felicemente nell’amata Florentia – un grosso volumone di scritti di Enzo Cheli in materia di manifestazione del pensiero a cura della cara amica Michela Manetti. Poi è arrivata, per allargare ancóra di più il campo toccando anche temi ai confini con altre discipline come, ad esempio, la letteratura, la collana de Il Poggiolo dei Medardi, per la quale, ad esempio, l'amico Luciani ci ha dato un suo bellissimo scritto su Leopardi. Da ultimo, abbiamo costruito il nostro sito digitale denominato “Seminarî Mutinensi” nonché il nostro giornale elettronico, intitolato il “Gazzettino dei Seminarî Multinensi”… e lo dico senza tema di smentita, non è stata propriamente una passeggiatina!
In passato avevo avuto svariate possibilità di partecipare ad altri rassemblament editoriali, ma seguendo la massima di Jim Morrison, che dice: «ho bisogno di distinguermi dalla massa, non mi sento al mio posto in mezzo alla maggioranza», ho preferito mettermi in proprio. Ho aspettato finché non sono stato libero di fare esattamente ciò che fantasticavo. Quella che volevo era una ribalta aperta, che, come dico nell'editoriale, non diventi la ribalta di zia Clara ma sia capace di accogliere le varie lingue senza per questo diventare una Babele. Già a scuola mi vergognavo “per conto terzi” quando qualche compagno faceva scena muta in un’interrogazione ed è un sentimento che talora ho provato anche nella mia lunga vita accademica vedendo cose che non mi sono piaciute. Ad esempio, spesso ho visto lavori rifiutati per ragioni non nobili. E quando le ragioni non sono nobili, sovente capita che siano ignobili. E non mi è piaciuto. Ho visto personaggi in posizioni di primo piano, che dirigevano a bacchetta la danza e decidevano cosa si poteva dire e cosa non si doveva sostenere. E non mi è piaciuto per niente. Ho visto persone favorite nel pubblicare perché cantavano la solita musichina; si sono inventate cattedre per suonare in coro quelle zampogne stridenti. E non mi è piaciuto. Ho sentito parlare della “dottrina dominante” come se fosse un blasone altisonante, un baluardo di perfezione, mentre, come già spiegava Popper, era solo un modo prepotente per avere la meglio e dividere le postazioni. Quando tutto lo spazio è occupato e non c’è più possibilità di allargarsi, allora nasce una nuova minoranza, che all’inizio viene osteggiata ma pian piano prende piede e magari alla fine diventa maggioranza finché non viene a sua volta scalzata in una specie di vano quanto sterile gioco delle maree. Sappiamo com’era la gestione delle cattedre di filosofia in Germania quando Hegel le governava tutte. Chi non è con te diviene un “Mr. Nobody”, cioè Mister Nessuno, che non esiste, deve sparire, il suo nome deve essere cancellato anche dalle steli di marmo. Tutte queste cose a suo tempo le ho vissute nel silenzio perché non avevo l'autorevolezza sufficiente per dire la mia spostando qualcosa: guardavo e non mi piacevano. Ecco perché, quando finalmente sono maturate le condizioni propizie, ho cercato di offrire una platea a chiunque scriva delle cose di valore utilizzando quale unico criterio di selezione la serietà scientifica. Intesa in tal modo, questa credo sia un'attività reputabile di pubblico interesse. Ragione per cui io e coloro coi quali ho il piacere e l'onore di operare, accarezziamo – come si dice – il nostro sogno, seppur ci tormenta.
Grazie a tutti, di tutto e per tutto.
Aljs Vignudelli
Presidente dei Seminari Mutinensi
Presidente dei Seminari Mutinensi