Tutti in cortile
Buon pomeriggio a tutti. In questo contesto mi sento
in una condizione molto particolare, che è quella di chi partecipa a una
festa di compleanno e riceve anche un regalo. Di solito chi partecipa
al compleanno di qualcuno porta il regalo: arriva e omaggia il
festeggiato. E invece quello di oggi, per me, come credo per tutti i presenti, è un regalo che il festeggiato stesso ha pensato di preparare
ai suoi ospiti. Lo dico per tutto ciò che (di bello) abbiamo sentito
finora, e specialmente per la possibilità, che ci è stata offerta, di
partecipare a una sorta di stato d’animo comune. Quello stato d’animo che si avverte già, e soprattutto, nell’Editoriale del numero celebrativo di questi primi dieci anni de Lo Stato:
un testo in cui – come ha evidenziato assai bene Massimo Luciani nel
suo intervento – emerge un legame molto stretto tra la materia oggetto
di approfondimento e quello che siamo, non solo come studiosi, ma anche,
in fondo, come uomini.
È un legame, peraltro, particolarmente stretto. Tanto stretto dall’evocare il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che tanto piccolo, a ben guardarci, non è, perché al suo interno nasconde un cosmo, un universo, una visione del mondo più grande: nel nostro caso, una idea del diritto, dell’ordinamento, dello Stato, che la rivista che viene ora festeggiata cerca di assecondare e, quasi, di tutelare; e questa idea corrisponde proprio ad un mondo che, per l’appunto, non è piccolo, bensì enorme, con una propria tradizione, con i propri miti ed eroi, con le proprie leggende.
Per cogliere tutto ciò, però, occorre una predisposizione, un approccio, una sensibilità. Sono presupposti per nulla scontati. Del resto, se c’è qualcosa che si può facilmente avvertire nel comune stato d’animo dell’incontro di oggi, sono questi presupposti, che alla fine coincidono con l’assunzione di una prospettiva esistenziale, quella per cui lo studioso in generale, non solo il giurista, è studioso, innanzitutto, non per lavoro, ma per una scelta di vita.
Questo è davvero un aspetto che, probabilmente, segna profondamente la differenza tra l’accademia di oggi e l’università che c’era una volta. Chi lavora oggi all’università altro non fa, prevalentemente, che lavorare all’università. È, in primis, se gli va bene, uno strutturato. È situato in un certo luogo con una serie di mansioni più o meno definite. Viceversa, lo studioso del mondo piccolo – o del mondo di ieri, se si preferisce utilizzare un altro richiamo suggestivo – era innanzitutto uno studioso; uno studioso che lavorava anche all’università.
Sicché, oggi, vi è un rovesciamento di dimensione e, dunque, di esperienza esistenziale. E, come si è accennato, l’Editoriale dapprima menzionato lo dimostra plasticamente. Lasciando, così, intendere che nella missione de Lo Stato vi è l’obiettivo di difendere quello studioso e, con esso, quel preciso legame tra scienza e vita.
Ciò premesso, questo mio intervento vuol essere cosa breve. Se non altro perché, anche su sollecitazione di Aljs Vignudelli, ho cercato di concentrarmi solo su quella rubrica che, dal 2018 in poi, compare sulle pagine della rivista sotto la denominazione de “Il cortile del banano”. Dunque ho pensato di attribuire a questa mia piccola relazione il titolo “Tutti in cortile” e di corredarla con qualche spunto figurativo, che ho riportato in pochissime slides.
Perché, per prima cosa, bisogna ricordare che il “cortile del banano” è un luogo reale; cioè, quel banano, quello della rubrica che ne porta il nome, è un banano vero. Non è soltanto un’immagine figurata. Difatti, quel banano si trova nel cortile di un compendio immobiliare importante, il complesso San Paolo, posto nel centro storico di Modena, nell’edificio della biblioteca giuridica dell’università. Non a caso, prima del 2018, la rubrica in questione si definiva “Biblioteca”.
La sostituzione di “Biblioteca” con “Il cortile del banano” suggerisce molto.
Il cortile è, usualmente, il luogo in cui chi sta in biblioteca ogni tanto si riposa e si scambia delle opinioni e delle impressioni.
Si tratta, quindi, di un titolo ideale, di una denominazione che pare evocare, anch’essa, proprio la dimensione esistenziale quotidiana dello studioso di cui si diceva poc’anzi. E pare evocare anche un certo genius loci, uno “spirito” che la frequentazione del cortile dovrebbe comunicare a chi si serva della biblioteca: se nella biblioteca si lavora e si compulsa ciò che serve per la specifica indagine che si sta compiendo, nel cortile ci si incontra, si condividono idee su ciò che si sta indagando, su ciò che si è visto, anche per caso, sugli scaffali, sulle letture, anche fortuite, e fortunate, che capita spesso di fare allorché non si trova quanto si andava cercando e si rinviene, invece, uno spunto per piste ulteriori o differenti.
Pertanto, la denominazione della rubrica allude a un movimento, dall’interno all’esterno; è un invito a ritrovarsi in cortile, per poi tornare in biblioteca più consapevoli, più sereni e più ricchi di prima. È un movimento, che, forse, sia pur nei primi dieci anni di vita, Lo Stato stesso ha sperimentato, passando da una certa idea delle recensioni o delle letture critiche ad una pratica più dinamica del confronto scientifico. Ma su questo profilo tornerò tra poco.
In via preliminare, infatti, occorre chiedersi che cosa troviamo ne “Il cortile del banano”.
Frequentare quello “spazio” produce la sensazione di ritrovarsi improvvisamente “a scuola”. Ma non all’interno di una scuola qualsiasi, bensì in una grande scuola. Il “cortile” de Lo Stato, in questo senso, assume le fattezze del luogo raffigurato da Raffello nel famosissimo affresco sulla Scuola di Atene.
Ne “Il cortile del banano” si incrociano riflessioni su testi che fanno riferimento a temi tradizionali, importanti, classici, fondativi. In vista dell’incontro di oggi ho provato a raccogliere una parte di questi temi, isolandoli per parole-chiave.
I lemmi sono tantissimi, e sono tra loro differenti. Eppure hanno tutti una caratteristica; un segno distintivo e agglutinante, che, se vi facciamo attenzione, è semplicissimo cogliere. Stato costituzionale; Carl Schmitt; positivismo; populismo; democrazia; Stato; nuovi diritti; comparazione; Europa; Weimar; Hans Kelsen… Che cosa ci evocano tutte queste espressioni? Ci evocano il diritto pubblico generale, quello che un tempo, nel mondo di ieri, così si definiva. E che peraltro, nel “cortile” è spesso sottoposto a torsioni più attualizzanti (o meno tradizionali), visto che, in quella rubrica, si è discusso anche di populismo, di comparazione, di dialogo tra le corti, di religioni etc. E lo si è fatto con un certo metodo: le acquisizioni del diritto pubblico generale costituiscono la base per confrontarsi con ciò che l’evoluzione culturale, sociale ed economica pone quale sfida del presente.
Questa è la ragione per cui “Il cortile del banano” rievoca l’affresco di Raffaello: nel quale, allo stesso modo, si confrontano prospettive, visioni, concezioni diverse, per certi versi opposte, ma pur sempre nella cornice di una medesima tradizione.
Anche nella Scuola di Atene, al centro della scena, c’è chi guarda verso l’alto e chi guarda verso il basso. Ma si condivide lo stesso spazio aperto, cosa che accade anche nella rivista: il che equivale ad un invito a trascorrere da una prospettiva all’altra, pur condividendo un medesimo spirito; a passare sempre – come suggerisce, dunque, il cambiamento di denominazione della rubrica in esame, da “Biblioteca” a “Il cortile del banano” – da un essere dentro a un essere fuori, e viceversa.
Oggi si è parlato molto di che cosa era, forse, una certa università, e di che cos’è oggi l’università; di converso si è anche alluso a che cos’era il giurista e a che cosa oggi è diventato.
“Il cortile del banano” ci offre un messaggio su come conciliare questa dissociazione. Perché il giurista, oggi, è effettivamente sospeso tra un dentro e un fuori.
Alcuni giuristi, in altre parole, vogliono stare rigorosamente dentro: vogliono stare, cioè, solo in quel microcosmo lì, solo nel mondo di ieri. Guardano, naturalmente, a tutto ciò che accade, lamentando, però, una determinata crisi o più crisi che si intersecano, e cercando di difendere uno spazio nel quale il giurista non è solo un soggetto, ma è esso stesso un oggetto dell’ordinamento e in quanto oggetto deve fare ciò che l’ordinamento prescrive.
È un custode, il custode del giardino (utilizzando un’altra suggestione).
Eppure, nel movimento di chi dalla biblioteca si sposta in cortile, non possiamo non pensare a chi esce, a chi si sposta dall’interno all’esterno. E realmente, oggi, tanti giuristi, molti anche influenzati dalle crisi di cui parlavamo o dall’evoluzione della tecnologia, assumono uno sguardo diverso, si proiettano al di fuori della tradizione.
Quello che emerge, in questa proiezione, è, a ben guardare, il vecchio tema del giurista scienziato sociale. Il giurista, cioè, che non è solo il custode: è anche colui che osserva in maniera asettica tutto quello che accade (come nell’immagine che segue) e si mette fuori dall’influenza della materia analizzata.
Non è più il custode, o, meglio, non è più necessariamente il custode.
Nello stesso momento in cui riflettevo su “Il cortile del banano” e sulle sue traiettorie, dal 2018 ad oggi, ho avuto modo di rileggere uno scritto minore di Rodolfo Sacco, del 2011, intitolato Per una macrostoria del diritto (in Rivista di storia economica, n. 3/2011).
È uno degli spin off di quel lavoro che, già nel 2007, era diventato il saggio monografico sull’antropologia giuridica (Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del diritto, il Mulino, Bologna, 2007).
Ebbene, Sacco, in quello scritto del 2011, dice una cosa che mi ha molto preoccupato, e che ha a che fare con questo rapporto tra dentro e fuori. Sacco, precisamente, afferma che nella lettura macrostorica il diritto «può vivere e svilupparsi senza giurista, ossia senza essere contrappuntato da un apparato di conoscenza criticamente elaborato».
Se mi metto nei panni del giurista che vuole stare dentro, non mi ritrovo più, mi sento completamente smarrito. Viceversa, se mi pongo totalmente al di fuori, riconoscendo che per circa 3000 anni, effettivamente, un corpo di giuristi nel senso (per esempio) romanistico del termine non c’era, comprendo il senso dell’osservazione.
D’altra parte, se riflettiamo sul ruolo odierno della tecnologia, non ci è difficile pensare al tema di un diritto che può in qualche modo divulgarsi, oltre che applicarsi, da solo. Forse è un’utopia, però non ci riesce difficile cominciare a immaginare che, nel futuro, ad un certo punto, un mediatore (o un custode) non ci sia più. Come, per l’appunto, non vi sarebbe stato in un remoto passato.
A leggere le pagine de Lo Stato, tuttavia, si riceve un’indicazione metodologica importante e, fortunatamente, tranquillizzante.
Frequentando il “cortile del banano”, il messaggio che al giurista giunge è che è chiamato a compiere un’operazione costante: deve sapere che cosa succede, deve guardarlo, deve uscire, deve osservare anche se stesso, deve in qualche modo essere custode anche di se stesso; allo stesso tempo, però, non deve abbandonare la tradizione, perché rischierebbe di perdersi o di rimanere travolto; e quindi ha anche il dovere di tornare dentro e di ri-farsi custode.
È custode, ovviamente, non di una singola soluzione, che ha una sua storicità, ma di quella tradizione, di quell’alfabeto, di quel lessico, di quelle nozioni, di quel dibattito, di quelle grandi lezioni che naturalmente arricchiscono il patrimonio del giurista.
Dentro e fuori, dunque. Si esce dalla biblioteca, si sta nel cortile, ci si confronta con la realtà e con le visioni altrui, e poi si torna in biblioteca. Poi, cioè, di torna all’interno del circuito in cui il ruolo del giurista, che è funzione di razionalizzazione, torna a farsi compiuto.
Ecco, questa è la sensazione che provo frequentando le pagine di questa rivista; e questo credo sia anche in parte il messaggio di chi vuole, per così dire, “custodire il ruolo di custode” proprio del giurista: il ruolo del soggetto che ha quel pensiero critico, e che – parafrasando Sacco – fa da indispensabile contrappunto rispetto a tutto ciò che incide materialmente sulla dimensione dell’ordinamento.
D’altra parte – è stato ricordato da Giuseppe Ugo Rescigno nella sua relazione – non si può non essere coscienti della durezza delle cose e del modo con cui essa può mettere in discussione il ruolo del giurista. Dopodiché, occorre anche essere coscienti della propria deontologia di studioso, di giurista consapevole della tradizione cui appartiene.
Bisogna, in ultima analisi, essere coscienti del fatto che la collocazione corretta è in un andirivieni tra dentro e fuori, in una faglia di confine, portando con sé le conoscenze e le competenze che si sono accumulate nel tempo.
Una nota conclusiva la voglio dedicare alla questione universitaria, da cui ha preso le mosse, come si è ricordato, anche l’intervento di Massimo Luciani.
Si discute spesso, anche oggi, di revisione, di cambiamento, di riforma: del modo con cui il giurista si forma, in generale; e delle cc.dd. “classi di laurea”, in particolare. Il dibattito è in corso, presto si concluderà con l’adozione di specifici provvedimenti ministeriali che apporteranno diverse innovazioni, nel segno delle abilità concrete del giurista, dell’interdisciplinarità, della flessibilità. Alla luce di quanto detto finora, diremmo nel segno di ciò che fuori viene sempre più richiesto al giurista, specie dinanzi a contesti socio-economici via via più complessi e meno “governabili”.
Orbene, in questo dibattito, si allude frequentemente all’opportunità che – coerentemente con queste sollecitazioni – la “cassetta degli attrezzi” del giurista sia ammodernata, potenziata, riordinata. E la tendenza è a pensare che questo aggiornamento non possa che avere un forte impatto sostitutivo: che debba, cioè, procedere per mezzo della mutazione di alcuni dispositivi di base per la comprensione del fenomeno giuridico, ad esempio mediante una forte alfabetizzazione di carattere economico, scientifico in senso stretto, tecnologico etc.
È chiaro che questi non sono obiettivi da trascurare; anzi. Al contempo, però, e la rivista Lo Stato ce lo insegna, e ce lo insegna tanto più la frequentazione de “Il cortile del banano”, ad essere irrinunciabile è l’esperienza dentro/fuori di cui si è detto, esperienza che è possibile e si rivela feconda soltanto se lo studio e la comprensione degli stimoli più evolutivi avviene alla luce dell’attrito con le categorie giuridiche tradizionali. Che, peraltro, come è sempre la rivista a dimostrare, sono sempre rotonde: non appartengono solo al patrimonio del pubblicista o del privatista o del penalista etc. Ma sono parte dello strumentario di un giurista rotondo, che sa capire il luogo e il tempo in cui si trova e, simultaneamente, sa farsi custode della tradizione.
Che cosa si può dire, dunque, a mo’ di conclusione: grazie ancora ad Aljs Vignudelli, come a Federico Pedrini e a Luca Vespignani, non solo per il regalo che oggi ci hano fatto, invitandoci a condividere il festeggiamento di un’esperienza editoriale così ispirante; ma anche, se non soprattutto, per gli insegnamenti, la testimonianza potremmo dire, che da quell’esperienza si possono trarre per il futuro del nostro ruolo di giuristi. E che senz’altro continueranno a stimolarci anche negli anni a venire.
È un legame, peraltro, particolarmente stretto. Tanto stretto dall’evocare il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che tanto piccolo, a ben guardarci, non è, perché al suo interno nasconde un cosmo, un universo, una visione del mondo più grande: nel nostro caso, una idea del diritto, dell’ordinamento, dello Stato, che la rivista che viene ora festeggiata cerca di assecondare e, quasi, di tutelare; e questa idea corrisponde proprio ad un mondo che, per l’appunto, non è piccolo, bensì enorme, con una propria tradizione, con i propri miti ed eroi, con le proprie leggende.
Per cogliere tutto ciò, però, occorre una predisposizione, un approccio, una sensibilità. Sono presupposti per nulla scontati. Del resto, se c’è qualcosa che si può facilmente avvertire nel comune stato d’animo dell’incontro di oggi, sono questi presupposti, che alla fine coincidono con l’assunzione di una prospettiva esistenziale, quella per cui lo studioso in generale, non solo il giurista, è studioso, innanzitutto, non per lavoro, ma per una scelta di vita.
Questo è davvero un aspetto che, probabilmente, segna profondamente la differenza tra l’accademia di oggi e l’università che c’era una volta. Chi lavora oggi all’università altro non fa, prevalentemente, che lavorare all’università. È, in primis, se gli va bene, uno strutturato. È situato in un certo luogo con una serie di mansioni più o meno definite. Viceversa, lo studioso del mondo piccolo – o del mondo di ieri, se si preferisce utilizzare un altro richiamo suggestivo – era innanzitutto uno studioso; uno studioso che lavorava anche all’università.
Sicché, oggi, vi è un rovesciamento di dimensione e, dunque, di esperienza esistenziale. E, come si è accennato, l’Editoriale dapprima menzionato lo dimostra plasticamente. Lasciando, così, intendere che nella missione de Lo Stato vi è l’obiettivo di difendere quello studioso e, con esso, quel preciso legame tra scienza e vita.
Ciò premesso, questo mio intervento vuol essere cosa breve. Se non altro perché, anche su sollecitazione di Aljs Vignudelli, ho cercato di concentrarmi solo su quella rubrica che, dal 2018 in poi, compare sulle pagine della rivista sotto la denominazione de “Il cortile del banano”. Dunque ho pensato di attribuire a questa mia piccola relazione il titolo “Tutti in cortile” e di corredarla con qualche spunto figurativo, che ho riportato in pochissime slides.
Perché, per prima cosa, bisogna ricordare che il “cortile del banano” è un luogo reale; cioè, quel banano, quello della rubrica che ne porta il nome, è un banano vero. Non è soltanto un’immagine figurata. Difatti, quel banano si trova nel cortile di un compendio immobiliare importante, il complesso San Paolo, posto nel centro storico di Modena, nell’edificio della biblioteca giuridica dell’università. Non a caso, prima del 2018, la rubrica in questione si definiva “Biblioteca”.
La sostituzione di “Biblioteca” con “Il cortile del banano” suggerisce molto.
Il cortile è, usualmente, il luogo in cui chi sta in biblioteca ogni tanto si riposa e si scambia delle opinioni e delle impressioni.
Si tratta, quindi, di un titolo ideale, di una denominazione che pare evocare, anch’essa, proprio la dimensione esistenziale quotidiana dello studioso di cui si diceva poc’anzi. E pare evocare anche un certo genius loci, uno “spirito” che la frequentazione del cortile dovrebbe comunicare a chi si serva della biblioteca: se nella biblioteca si lavora e si compulsa ciò che serve per la specifica indagine che si sta compiendo, nel cortile ci si incontra, si condividono idee su ciò che si sta indagando, su ciò che si è visto, anche per caso, sugli scaffali, sulle letture, anche fortuite, e fortunate, che capita spesso di fare allorché non si trova quanto si andava cercando e si rinviene, invece, uno spunto per piste ulteriori o differenti.
Pertanto, la denominazione della rubrica allude a un movimento, dall’interno all’esterno; è un invito a ritrovarsi in cortile, per poi tornare in biblioteca più consapevoli, più sereni e più ricchi di prima. È un movimento, che, forse, sia pur nei primi dieci anni di vita, Lo Stato stesso ha sperimentato, passando da una certa idea delle recensioni o delle letture critiche ad una pratica più dinamica del confronto scientifico. Ma su questo profilo tornerò tra poco.
In via preliminare, infatti, occorre chiedersi che cosa troviamo ne “Il cortile del banano”.
Frequentare quello “spazio” produce la sensazione di ritrovarsi improvvisamente “a scuola”. Ma non all’interno di una scuola qualsiasi, bensì in una grande scuola. Il “cortile” de Lo Stato, in questo senso, assume le fattezze del luogo raffigurato da Raffello nel famosissimo affresco sulla Scuola di Atene.
Ne “Il cortile del banano” si incrociano riflessioni su testi che fanno riferimento a temi tradizionali, importanti, classici, fondativi. In vista dell’incontro di oggi ho provato a raccogliere una parte di questi temi, isolandoli per parole-chiave.
I lemmi sono tantissimi, e sono tra loro differenti. Eppure hanno tutti una caratteristica; un segno distintivo e agglutinante, che, se vi facciamo attenzione, è semplicissimo cogliere. Stato costituzionale; Carl Schmitt; positivismo; populismo; democrazia; Stato; nuovi diritti; comparazione; Europa; Weimar; Hans Kelsen… Che cosa ci evocano tutte queste espressioni? Ci evocano il diritto pubblico generale, quello che un tempo, nel mondo di ieri, così si definiva. E che peraltro, nel “cortile” è spesso sottoposto a torsioni più attualizzanti (o meno tradizionali), visto che, in quella rubrica, si è discusso anche di populismo, di comparazione, di dialogo tra le corti, di religioni etc. E lo si è fatto con un certo metodo: le acquisizioni del diritto pubblico generale costituiscono la base per confrontarsi con ciò che l’evoluzione culturale, sociale ed economica pone quale sfida del presente.
Questa è la ragione per cui “Il cortile del banano” rievoca l’affresco di Raffaello: nel quale, allo stesso modo, si confrontano prospettive, visioni, concezioni diverse, per certi versi opposte, ma pur sempre nella cornice di una medesima tradizione.
Anche nella Scuola di Atene, al centro della scena, c’è chi guarda verso l’alto e chi guarda verso il basso. Ma si condivide lo stesso spazio aperto, cosa che accade anche nella rivista: il che equivale ad un invito a trascorrere da una prospettiva all’altra, pur condividendo un medesimo spirito; a passare sempre – come suggerisce, dunque, il cambiamento di denominazione della rubrica in esame, da “Biblioteca” a “Il cortile del banano” – da un essere dentro a un essere fuori, e viceversa.
Oggi si è parlato molto di che cosa era, forse, una certa università, e di che cos’è oggi l’università; di converso si è anche alluso a che cos’era il giurista e a che cosa oggi è diventato.
“Il cortile del banano” ci offre un messaggio su come conciliare questa dissociazione. Perché il giurista, oggi, è effettivamente sospeso tra un dentro e un fuori.
Alcuni giuristi, in altre parole, vogliono stare rigorosamente dentro: vogliono stare, cioè, solo in quel microcosmo lì, solo nel mondo di ieri. Guardano, naturalmente, a tutto ciò che accade, lamentando, però, una determinata crisi o più crisi che si intersecano, e cercando di difendere uno spazio nel quale il giurista non è solo un soggetto, ma è esso stesso un oggetto dell’ordinamento e in quanto oggetto deve fare ciò che l’ordinamento prescrive.
È un custode, il custode del giardino (utilizzando un’altra suggestione).
Eppure, nel movimento di chi dalla biblioteca si sposta in cortile, non possiamo non pensare a chi esce, a chi si sposta dall’interno all’esterno. E realmente, oggi, tanti giuristi, molti anche influenzati dalle crisi di cui parlavamo o dall’evoluzione della tecnologia, assumono uno sguardo diverso, si proiettano al di fuori della tradizione.
Quello che emerge, in questa proiezione, è, a ben guardare, il vecchio tema del giurista scienziato sociale. Il giurista, cioè, che non è solo il custode: è anche colui che osserva in maniera asettica tutto quello che accade (come nell’immagine che segue) e si mette fuori dall’influenza della materia analizzata.
Non è più il custode, o, meglio, non è più necessariamente il custode.
Nello stesso momento in cui riflettevo su “Il cortile del banano” e sulle sue traiettorie, dal 2018 ad oggi, ho avuto modo di rileggere uno scritto minore di Rodolfo Sacco, del 2011, intitolato Per una macrostoria del diritto (in Rivista di storia economica, n. 3/2011).
È uno degli spin off di quel lavoro che, già nel 2007, era diventato il saggio monografico sull’antropologia giuridica (Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del diritto, il Mulino, Bologna, 2007).
Ebbene, Sacco, in quello scritto del 2011, dice una cosa che mi ha molto preoccupato, e che ha a che fare con questo rapporto tra dentro e fuori. Sacco, precisamente, afferma che nella lettura macrostorica il diritto «può vivere e svilupparsi senza giurista, ossia senza essere contrappuntato da un apparato di conoscenza criticamente elaborato».
Se mi metto nei panni del giurista che vuole stare dentro, non mi ritrovo più, mi sento completamente smarrito. Viceversa, se mi pongo totalmente al di fuori, riconoscendo che per circa 3000 anni, effettivamente, un corpo di giuristi nel senso (per esempio) romanistico del termine non c’era, comprendo il senso dell’osservazione.
D’altra parte, se riflettiamo sul ruolo odierno della tecnologia, non ci è difficile pensare al tema di un diritto che può in qualche modo divulgarsi, oltre che applicarsi, da solo. Forse è un’utopia, però non ci riesce difficile cominciare a immaginare che, nel futuro, ad un certo punto, un mediatore (o un custode) non ci sia più. Come, per l’appunto, non vi sarebbe stato in un remoto passato.
A leggere le pagine de Lo Stato, tuttavia, si riceve un’indicazione metodologica importante e, fortunatamente, tranquillizzante.
Frequentando il “cortile del banano”, il messaggio che al giurista giunge è che è chiamato a compiere un’operazione costante: deve sapere che cosa succede, deve guardarlo, deve uscire, deve osservare anche se stesso, deve in qualche modo essere custode anche di se stesso; allo stesso tempo, però, non deve abbandonare la tradizione, perché rischierebbe di perdersi o di rimanere travolto; e quindi ha anche il dovere di tornare dentro e di ri-farsi custode.
È custode, ovviamente, non di una singola soluzione, che ha una sua storicità, ma di quella tradizione, di quell’alfabeto, di quel lessico, di quelle nozioni, di quel dibattito, di quelle grandi lezioni che naturalmente arricchiscono il patrimonio del giurista.
Dentro e fuori, dunque. Si esce dalla biblioteca, si sta nel cortile, ci si confronta con la realtà e con le visioni altrui, e poi si torna in biblioteca. Poi, cioè, di torna all’interno del circuito in cui il ruolo del giurista, che è funzione di razionalizzazione, torna a farsi compiuto.
Ecco, questa è la sensazione che provo frequentando le pagine di questa rivista; e questo credo sia anche in parte il messaggio di chi vuole, per così dire, “custodire il ruolo di custode” proprio del giurista: il ruolo del soggetto che ha quel pensiero critico, e che – parafrasando Sacco – fa da indispensabile contrappunto rispetto a tutto ciò che incide materialmente sulla dimensione dell’ordinamento.
D’altra parte – è stato ricordato da Giuseppe Ugo Rescigno nella sua relazione – non si può non essere coscienti della durezza delle cose e del modo con cui essa può mettere in discussione il ruolo del giurista. Dopodiché, occorre anche essere coscienti della propria deontologia di studioso, di giurista consapevole della tradizione cui appartiene.
Bisogna, in ultima analisi, essere coscienti del fatto che la collocazione corretta è in un andirivieni tra dentro e fuori, in una faglia di confine, portando con sé le conoscenze e le competenze che si sono accumulate nel tempo.
Una nota conclusiva la voglio dedicare alla questione universitaria, da cui ha preso le mosse, come si è ricordato, anche l’intervento di Massimo Luciani.
Si discute spesso, anche oggi, di revisione, di cambiamento, di riforma: del modo con cui il giurista si forma, in generale; e delle cc.dd. “classi di laurea”, in particolare. Il dibattito è in corso, presto si concluderà con l’adozione di specifici provvedimenti ministeriali che apporteranno diverse innovazioni, nel segno delle abilità concrete del giurista, dell’interdisciplinarità, della flessibilità. Alla luce di quanto detto finora, diremmo nel segno di ciò che fuori viene sempre più richiesto al giurista, specie dinanzi a contesti socio-economici via via più complessi e meno “governabili”.
Orbene, in questo dibattito, si allude frequentemente all’opportunità che – coerentemente con queste sollecitazioni – la “cassetta degli attrezzi” del giurista sia ammodernata, potenziata, riordinata. E la tendenza è a pensare che questo aggiornamento non possa che avere un forte impatto sostitutivo: che debba, cioè, procedere per mezzo della mutazione di alcuni dispositivi di base per la comprensione del fenomeno giuridico, ad esempio mediante una forte alfabetizzazione di carattere economico, scientifico in senso stretto, tecnologico etc.
È chiaro che questi non sono obiettivi da trascurare; anzi. Al contempo, però, e la rivista Lo Stato ce lo insegna, e ce lo insegna tanto più la frequentazione de “Il cortile del banano”, ad essere irrinunciabile è l’esperienza dentro/fuori di cui si è detto, esperienza che è possibile e si rivela feconda soltanto se lo studio e la comprensione degli stimoli più evolutivi avviene alla luce dell’attrito con le categorie giuridiche tradizionali. Che, peraltro, come è sempre la rivista a dimostrare, sono sempre rotonde: non appartengono solo al patrimonio del pubblicista o del privatista o del penalista etc. Ma sono parte dello strumentario di un giurista rotondo, che sa capire il luogo e il tempo in cui si trova e, simultaneamente, sa farsi custode della tradizione.
Che cosa si può dire, dunque, a mo’ di conclusione: grazie ancora ad Aljs Vignudelli, come a Federico Pedrini e a Luca Vespignani, non solo per il regalo che oggi ci hano fatto, invitandoci a condividere il festeggiamento di un’esperienza editoriale così ispirante; ma anche, se non soprattutto, per gli insegnamenti, la testimonianza potremmo dire, che da quell’esperienza si possono trarre per il futuro del nostro ruolo di giuristi. E che senz’altro continueranno a stimolarci anche negli anni a venire.
Fulvio Cortese
Vice Presidente del Consiglio Universitario Nazionale
Vice Presidente del Consiglio Universitario Nazionale